UNIVERSITA' CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI MILANO - Facoltà di Giurisprudenza - Corso di Laurea in Giurisprudenza

LA TUTELA PENALE DELLA LIBERTA' RELIGIOSA - Tesi di Laurea di LORENZO GRASSANO Matr. 2901015

 

II. III. LE INTESE STIPULATE CON LE ALTRE CONFESSIONI RELIGIOSE.

 

Le intese stipulate fra lo Stato italiano e le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno dato vita a risultati differenti sia per quanto riguarda il contenuto delle posizioni espresse, sia per la sede in cui vennero stipulate.

L’intesa con la Chiesa valdese [1], del 21 aprile 1984, all’art. 4 dispone che << la Tavola valdese, nella convinzione che la fede religiosa non necessita di tutela penale diretta, riafferma il principio che la tutela penale in materia religiosa deve essere attuata solo attraverso la protezione dell’esercizio dei diritti di libertà riconosciuti e garantiti dalla Costituzione, e non mediante la tutela specifica del sentimento religioso. La Repubblica italiana prende atto di tale affermazione >>.

Si tratta di una affermazione a carattere confessionale della quale si dice che lo Stato prenda atto << al fine di una eventuale riforma della parte speciale del codice penale >> [2].

La norma riproduce quasi integralmente il progetto di intesa comunicato al Presidente del Consiglio dei ministri Giulio Andeotti il 4 febbraio 1978, in quanto si limita a sostituire l’espressione << ritenendo >> con << nella convinzione >>. La norma è riprodotta nella successiva legge di approvazione 11 agosto 1984, n. 449 all’art. 4 [3].

Questa concezione dei rapporti fra Stato e fede non può dirsi del tutto innovativa: analoga posizione è riconosciuta nelle osservazioni alla prima bozza della revisione concordataria, dove si afferma che, alla luce dei principi costituzionali in relativi al fenomeno religioso, non sembra più essere di competenza dello Stato << il provvedere alla cura religioni set ecclesiae  nei confronti di una o più confessioni religiose; né che possa spettare a queste il richiedere l’ausilio del braccio secolare per l’affermazione e la difesa della fede >> [4], escludendo l’ipotesi che tale tutela << possa concretarsi facendo ricorso ad ipotesi di reato quale è quella di vilipendio che integra un delitto di opinione in sé contrario allo spirito ed al dettato degli articoli 19 e 21 della Costituzione >> [5].

La dottrina a rilevato la natura << polemica >> della norma, da un punto di vista storico. Ad essa difficilmente può attribuirsi un significato diverso da quello meramente programmatico [6]; per tal motivo dichiarazioni simili per forma e sostanza contenute nelle intese stipulate con Avventisti e Pentecostali, non sono state inserite nell’articolato delle rispettive leggi d’approvazione ma solo nel preambolo alle intese allegate alle rispettive leggi.

Il 29 dicembre 1986 viene siglata l’intesa fra lo Stato e le Assemblee di Dio in Italia [7] ( nello stesso giorno viene stipulata anche l’intesa con l’Unione delle chiese avventiste del settimo giorno [8], riprodotta nella legge di approvazione 22 novembre 1988, n. 516, che però non contiene nessun accenno all’oggetto de quo ) che,sebbene contenga le medesime dichiarazioni di principio dell’art. 4 dell’intesa valdese, le colloca solo nel preambolo, con conseguente esclusione dalla legge di approvazione 22 novembre 1988, n. 517.

L’intesa conclusa con l’Unione delle comunità ebraiche il 27 febbraio 1987 assume un contenuto del tutto particolare in quanto all’art. 1, comma quarto ( art. 2, comma quarto della legge 8 marzo 1989, n. 101 ) viene dichiarato che << è assicurata in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazione tra i cittadini e tra i culti >>.

Il successivo comma quinto afferma come << il disposto dell’art. 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, si intende riferito anche alle manifestazioni di intolleranza  e pregiudizio religioso >>.

La disposizione cui si riferisce il quinto comma, contenuta nella legge di ratifica ed esecuzione della Convention internazionale sur l’èlimination de toutes les formes de discrimination raciale aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966 [9], prevede:

<< Salvo che il fatto costituisca un più grave reato, ai fini dell’attuazione della disposizione dell’art. 4 della Convenzione è punito con la reclusione da uno a quattro anni:

a)     chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale;

b)      chi incita in qualsiasi modo alla discriminazione, o incita a commettere o commette atti di violenza, nei confronti di persone perché appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico o razziale.

È vietata ogni organizzazione o associazione avente tra i suoi scopi di incitare all’odio o alla discriminazione razziale. Chi partecipi ad organizzazioni o associazioni di tal genere, o presti assistenza alla loro attività, è punito per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da uno a cinque anni.

Le pene sono aumentate per i capi e i promotori di tali organizzazioni o associazioni >>.

È da notare la scarsa applicazione che la giurisprudenza fece della legge 654 del 1975: la normativa in questione sembra ottenere risalto solo in conseguenza dell’Intesa stipula dallo Stato con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane.

La formulazione della norma definitiva è diversa da quella approvata dal Consiglio dell’Unione delle comunità israelitiche italiane il 17 luglio 1977 la quale, ex. art. 2, prevede che << il vilipendio della religione ebraica, le offese alla religione ebraica e il turbamento delle funzioni religiose sono puniti a norma degli articoli 402, 403, 404 e 405 c.p. >>, così come la bestemmia << con invettive o parole oltraggiose contro le credenze dell’ebraismo >> ai sensi dell’art. 724 c.p.; il secondo comma prevede che  << in sede di revisione del vigente codice penale sarà assicurata la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa senza discriminazione fra tutte le confessioni religiose >> [10]. La dottrina [11] vede nell’art. 2 dell’intesa con l’Unione delle comunità ebraiche il superamento di una apertura della tutela penale anche verso gli ebrei, a favore di una soluzione che si limita a garantire una tutela senza discriminazioni.

L’art. 3 della legge 13 ottobre 1975 è soggetto ad un riformulazione da parte dell’art. 1 del d.l. 26 aprile 1993, n. 122 ( convertito con modificazioni nella legge 25 giugno 1993, n. 205, << Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa >> ).

Il primo comma punisce con la reclusione fino a tre anni << chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi >> e con la reclusione da sei mesi a quattro anni << chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi >>; il comma terzo vieta ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, punendone oltre la partecipazione anche il mero prestare assistenza alle loro attività, e con pene aggravate per i promotori e dirigenti.

In dottrina si rileva che per mezzo di tale normativa << l’uguaglianza senza distinzione di religione è assunta al rango di bene giuridico protetto, determinando così la più significativa evoluzione delle norme penali in materia ecclesiastica dopo l’entrata in vigore della Costituzione >> [12].

La dottrina nega il carattere meramente programmatico degli ultimi due commi dell’art. 2 della legge 101 del 1989. La nuova tecnica legislativa, e la composizione sostanzialmente uguale della commissione paritetica per parte statuale, sono indici rilevatori del fatto che, se si fosse voluto attribuire a tali disposizioni il significato attribuito all’art. 4 della legge n. 449 del 1984, sarebbe stato più logico ed opportuno collocarle nel preambolo all’Intesa con le Comunità israelitiche, e non direttamente nell’articolato delle legge di approvazione [13].

La formula del comma quattro dell’ art. 2 della legge 101 del 1989 risulta di tenore diverso rispetto a quelle sino ad ora considerate, e la dottrina non dubita che non si tratti della presa d’atto di una affermazione unilaterale. Il prendere atto della dichiarazione di volontà di un soggetto è cosa diversa dall’utilizzare la dizione << è assicurata >>: << se anche a quest’ultima si fosse voluto attribuire un significato programmatico meglio sarebbe stato utilizzare il futuro “sarà assicurato”>> [14].

Nei confronti della disposizione considerata parte della dottrina ne ha riconosciuto un particolare significato: abrogando implicitamente l’art. 406 c.p. e modificando il disposto con l’art. 1 del protocollo addizionale al Nuovo Accordo del 1984 con la Chiesa Cattolica gli artt. 402 e 724 c.p., abbia parificato, con un innalzamento verso l’alto, la tutela penale del sentimento religioso in favore di tutti i culti.

La norma realizzerebbe quella modifica delle norme a tutela del sentimento religioso che da anni viene auspicata da parte della miglior dottrina.

La norma non esclude nessuna delle fattispecie esistenti e sembra essere stata costruita proprio sulla base del dibattito in materia sorto dopo l’entrata in vigore della Costituzione.

Gli articoli 402-405 c.p. e 724 c.p. dovrebbero essere letti sostituendo la dizione << religione di Stato >> con quella << sentimento religioso e i diritti di libertà dei cittadini e dei culti >>, mentre dovrebbe essere considerata abrogata la norma ex. art. 406 c.p. [15].

Finocchiaro [16] sostiene che la formula utilizzata non obbliga lo Stato ad assicurare un << tutela penale dei culti >>, ma solo a garantire che, qualora nell’esercizio della sua sovranità volesse prevederla, essa dovrebbe porsi come paritaria per tutte le confessioni; la presenza dell’art 2, comma quarto, renderebbe ancora più esplicita l’opportunità di prevedere una tutela paritaria del fenomeno religioso, ma essa rimane sempre una norma contenuta in una legge di approvazione di una intesa, da applicarsi quando si tratta di interpretare gli artt. 402-406 e 724 c.p.

Di avviso contrario Margiotta Broglio [17], per la quale la presenza della legge 101 del 1989 determinerebbe l’eliminazione della disparità di trattamento della normativa penale << che tutelava il sentimento religioso del culto di maggioranza e dei suoi fedeli in maniera più grave rispetto a culti e ai fedeli di minoranza >>.

Parte della dottrina si è chiesto se un simile effetto non potrebbe estendersi solo nei confronti delle Comunità israelitiche [18]. La legge suddetta disciplina i rapporti tra Stato e un culto specifico: da questa ovvia affermazione la dottrina ha messo in dubbio la validità ultra fideles di quanto contenuto nell’intesa. Se questi dubbi fossero fondati, la parificazione della tutela dovrebbe applicarsi solo agli ebrei.

Le norme della legge 203 del 1993 vennero approvate sulla base di forte tensioni emotive conseguenti ad atti di intolleranza e discriminazione razziale avvenuti tra la fine del 1992 e gli inizi del 1993.

De Francesco nota come il tratto caratteristico di questa legge sia il fatto che venga aumentata la protezione verso comportamenti che non possono tollerarsi alla luce dei valori di convivenza civile, << attraverso una estensione dell’ambito di tutela anche alle ipotesi di discriminazione attinenti alla sfera religiosa che si vorrebbero ad affiancare a quelle già presenti della sfera razziale, etnica e nazionale >> [19]. L’autore rileva l’importanza che assumono i << motivi >> dell’azione criminosa, a differenze della precedente normativa dove il fatto tipico veniva costruito attraverso il riferimento dell’offesa rivolta verso persone in quanto appartenenti a determinati gruppi. Ciò permetterebbe di punire atti discriminatori perpetuati verso persone appartenenti allo stesso gruppo cui appartiene il soggetto agente.

Per Chizzoniti [20] l’elemento di novità sarebbe costituito dalla distinzione tra l’ipotesi della diffusione di idee fondate sulla superiorità razziale sull’odio razziale o etnico ex. art 3, comma primo, lettera a), prima parte e le altre fattispecie previste dalla norma: incitare a commettere o commettere atti discriminatori ( seconda parte della lettera a), 1°comma art. 3; incitare a commettere o commettere violenza o atti di provocazione alla violenza ( lettere b), 1° comma art. 3: tutte ipotesi di reato che si possono perseguire se commesse per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Rimane poi il terzo comma che vieta ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo << avente tra i porri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi >>.

E’ la natura stessa della condotta incriminata che sembra aver risolto il legislatore verso la prudente scelta di restringere le ipotesi perseguibili con la prima delle fattispecie individuate: si è riconosciuto il rischio di incidere in ambiti tutelati dal principio ex. art. 21 Cost.

Il legislatore decide di limitare le ipotesi di discriminazione escludendo i casi per cui le idee discriminanti trovino origine nella identità nazionale o religiosa; in tal modo viene manifestato una sorta di ossequio sia verso certe manifestazioni di patriottismo, sia verso il ruolo della confessione religiosa di maggioranza << che non ha tenuto della dovuta considerazione la capacità di distinguere tra intransigenza xenofoba e rispetto dell’identità nazionale, tra radicamento di una fede religiosa e intolleranza religiosa >> [21].

Discriminare significa << trattare in modo diseguale >>, ma è ovvio che non tutti i comportamenti che trattano gli individui in modo non uguale si possa identificare come discriminatori: la soglia di punibilità dei comportamenti considerati potrà essere identificata sulla base del concetto di arbitrarietà [22].

La fattispecie delle condotte violente può essere ricondotta all’ipotesi di normale violenza, circostanziate in ragione della motivazione, che in questo caso evidenzierebbe la presenza del dolo specifico.

Per quanto riguarda l’ipotesi di incitamento a commettere atti discriminatori o atti di violenza per motivi discriminatori bisogna rifarsi all’orientamento della Corte costituzionale in materia di apologia di reato.

La Corte, fin dalla sentenza n. 65 del 4 maggio 1970, sostiene che non è sufficiente un mero apprezzamento positivo del reato per integrare il delitto considerato, essendo necessario che l’affermazione sia espressa in modo tale da costituire un << efficace incitamento a commette tale reato >>. L’apologia punibile è quella che per le sue modalità << integri un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti.

Per De Francesco [23] la dizione << incitamento a commettere atti di … >> manifesta l’intenzione da parte del legislatore di intervenire non tanto su pratiche diffuse di natura discriminatoria, quanto su singoli comportamenti discriminati. Ciò avrebbe conseguenze anche nei confronti del bene tutelato, in quanto sia avrebbe un recupero della dimensione << personalistica >> di protezione del singolo, senza però escludere eventuali comportamenti più generalizzati.

L’atto di discriminazione, come l’ipotesi di incitazione a commetterlo, non deve necessariamente integrare una condotta già definita come delittuosa. Se nell’ipotesi del comportamento violento la fattispecie penalmente rilevante già sussiste ( l’art. 3 contiene l’inciso << salvo che il fatto non costituisca più grave reato >> ), l’atto discriminatorio può essere di per sé lecito ma che, in presenza della motivazione considerata, diventa punibile penalmente.

Per quanto riguarda l’ipotesi disciplinata dall’art. 3 della legge 203 del 1993 Chizzoniti si chiede l’effettiva utilità della sua presenza, in quanto << gli scopi che il soggetto attivo deve perseguire sono l’integrazione delle condotte gia punite al n. 1 dello stesso articolo 3, con l’esclusione ancora una volta della semplice diffusione di idee >> [24].

Per ovviare a questo inconveniente si sarebbe potuto << ipotizzare un’applicazione del reato di associazione a delinquere finalizzato alla commissione dei reati di cui all’art. 3, comma 1, visto oltretutto che la pena prevista in quest’ultimo caso è minore di quella di cui al n. 3 dell’art. 3, così come novellato >>.

Per dare alla norma in questione una interpretazione in grado di garantirle una ratio autonoma, la dottrina ha rilevato il fatto che, avendo il legislatore previsto l’esclusiva incriminazione delle ipotesi di associazione che abbiano tra i propri scopi << l’incitamento a commetter >>, saremmo in presenza di un classico reato di pericolo; la dottrina comunemente ritiene che i reati di tipo associativo siano reati di pericolo e in questo caso sembrerebbe che il legislatore abbia previsto una fattispecie di tipo associativo che abbia come scopo commettere reati di pericolo: sarebbe un reato di pericolo del pericolo, << con un’eccessiva anticipazione della tutela penale >> [25].

Da ciò si può dedurre che il legislatore, recependo le istanze della società di essere protetta verso tali forme di delinquenza, abbia voluto introdurre una deroga al principio della non punibilità dei reati associativi diretti a comportare un mero pericolo per i beni giuridici tutelati [26].

Nel corso degli anni novanta lo Stato italiano stipula due intese, il 29 marzo 1993 con l’Unione evangelica battista d’Italia, legge 12 aprile 1995, n. 115, e con la Chiesa evangelica luterana, il 20 aprile 1993, ratificata con legge 29 novembre 1995, n. 520.

Se nel primo caso il preambolo allude alla non necessità di una specifica tutela penale, nella seconda intesa non può rinvenirsi il benché minimo accenno in materia.

Lo stesso può dirsi nei confronti di altre due intese, stipulate entrambe il 20 marzo 2000 ed ancora in attesa di approvazione: la prima, che interessa la Congregazione italiana dei testimoni di Geova e che non menziona in alcun modo l’esigenza di una tutela penale dei culti; la seconda,  stipulata con l’Unione buddista italiana, che nel preambolo afferma << che la fede non necessità di tutela penale diretta >>.

Nel febbraio 1993 l’Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia ( U.C.O.I.I. ) presenta una bozza di intesa [27], redatta unilateralmente, in cui si delibera, a modello di quanto previsto con l’Unione delle comunità ebraiche, che, ex. art. 1, comma quarto e quinto, << è assicurata in sede penale, la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazione tra i cittadini e tra i culti >> e che << il disposto dell’art. 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, si intende riferito anche alle manifestazione di intolleranza e pregiudizio religioso >>.

Simile è la posizione assunta dall’Associazione mussulmani italiani ( A.M.I. ), all’art. 1, comma quarto e quinto, della bozza di intesa presentata nel 1996 [28], e dalla Comunità religiosa islamica italiana ( CO. RE. IS. ) all’art. 4, comma primo e secondo, con una bozza redatta sempre nel medesimo anno [29].

 

I contenuti delle varie intese stipulate con le confessioni religiose diverse dalla cattolica rilevano come, nei confronti dell’esigenza di una tutela penale del fenomeno religioso, non sia possibile riconoscere una univoca presa di posizione.

La dottrina [30] non ritiene che le dichiarazioni di principio contenuti nei preamboli, non inserite in alcun testo di legge, siano prive di significato, in quanto basti considerare che l’intesa, nella sua interezza, è posta come allegato alla legge di approvazione: ciò è sufficiente per considerarle un valido aiuto interpretativo delle norme a contenuto precettivo o per spiegare l’assenza di altre disposizioni.



[1] La Chiesa evangelica valdese ( come anche quella metodista ) adotta la Confessione di fede delle chiese riformate del Piemonte del 1655. Questo culto non ha carattere gerarchico, ma è costituita da un insieme di comunità locali autonome. L’assemblea dei credenti, riunita nella chiesa locale, costituisce il centro della vita ecclesiastica e si è ammessi solo dopo una professione di fede. Le chiese locali , il cui organo collegiale è chiamato concistoro o consilio di chiesa, sono raggruppate territorialmente in circuiti e distretti e vengono rappresentate in un unico Sinodo.

[2] G. Casuscelli, L’Intesa con la Tavola valdese, in AA.VV., Concordato e Costituzione. Gli accordi del 1984 tra Italia e S. Sede, a cura di S. Ferrari, Bologna, 1985, pag. 237.

[3] Il testo integrale dell’Intesa può essere consultato in Tavola Valdese, << Proposta di intesa con lo Stato >>, in S. Lariccia, Stato e Chiesa in Italia. 1948-1980, Brescia, Queriniana, 1981, pag. 324 e ss.

[4] Tavola Valdese, << Nota sull’interferenza “in re aliena” contrastanti con la Costituzione contenute nelle proposte di revisione concordataria >> in Dir. eccl., 1977, I, pag. 487.

[5] Ibidem.

[6] G. Long, Le confessioni religiose << diverse dalla cattolica >>. Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, Bologna, il Mulino, 1991, pag. 123.

[7] La fede su cui si basa questa chiesa è costituita dall’intera Bibbia, considerata come infallibile parola del Signore, sull’incarnazione di Cristo, sulla santissima Trinità, sulla resurrezione dei morti nel giudizio universale in cui gli uomini saranno giudicati secondo le loro opere. Viene attribuita particolare importanza alla preghiera, ritenuta capace di guarire le malattie; viene praticato il battesimo mediante immersione ed il loro culto consiste nelle lettura nell’adorazione di Dio e nella lettura dei testi sacri.

[8] L’unione delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno riunisce le comunità italiane che aderiscono al movimento avventista. Queste chiese si qualificano avventiste del 7° giorno perché considerano lo spostamento alla domenica del giorno dedicato al Signore come uno dei peccati più gravi della cristianità, e per il particolare significato che esse attribuiscono al sabato.

[9] Il 21 Dicembre 1965 l’Assemblea generale dell’ONU approva per la prima volta un Convenzione avente lo scopo di eliminare ogni tipo di discriminazione razziale. Essa obbliga gli stati contraenti non solo a predisporre misure discriminatorie, ma pure a vietare sul proprio territorio ogni pratica discriminatoria, attribuendo ad ogni individuo strumenti effettivi di tutela davanti ai propri tribunali statali. La previsione contenuta nell’articolo 3 della legge 654 del 1975 soddisfa l’obbligo contenuto nella Convenzione di prevedere << procedure nazionali di garanzia internazionale obbligatoria >>.

[10] In S. Lariccia, Stato e Chiesa in Italia. 1948-1980, Brescia, Queriniana, 1981, pag. 310.

[11] S. Lariccia, << Tutela penale dell’ “ex. Religione dello Stato” e i principi costituzionali >>, in Giur. cost., 1988, I, pag. 4311 e ss.

[12] G. Casuscelli, Uguaglianza e fattore religioso, in Dig. disc. pub., vol. XV, Torino, Utet, 1999, pag. 445.

[13] A. G. Chizzoniti, Pluralismo confessionale e lotta all’intolleranza religiosa. Le legge 203 del 1993 e l’intesa con l’Unione delle Comunità israelitiche: brevi considerazioni di ordine sistematico, in Quad. dir. e pol. eccles., 1997, II, pag. 337.

[14] Ibidem. G. Long, Le confessioni religiose << diverse dalla cattolica >>. Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, Bologna, il Mulino, 1991, pag. 171, parla di << formule diseguali >>, ma le ritiene compatibili, pur riconoscendo l’impegno bilaterale contenuto nell’Intesa ebraica.

[15]A. G. Chizzoniti, Pluralismo confessionale e lotta all’intolleranza religiosa. Le legge 203 del 1993 e l’intesa con l’Unione delle Comunità israelitiche: brevi considerazioni di ordine sistematico, in Quad. dir. e pol. eccles., 1997, II, pag. 339.

[16] F. Finocchiaro, Diritto ecclesisastico, Bologna, Zanichelli, 1986, pag. 236.

[17] F. Margiotta Broglio, Uno scontro tra libertà: la sentenza Otto-Preminger-Istitut della Corte europea, in Riv. dir. inter., 1995, pag. 376.

[18] A. G. Chizzoniti, Pluralismo confessionale e lotta all’intolleranza religiosa. Le legge 203 del 1993 e l’intesa con l’Unione delle Comunità israelitiche: brevi considerazioni di ordine sistematico, in Quad. dir. e pol. eccles., 1997, II, pag. 340.

[19] G. De Francesco, Commento all’art. 1 della L. 203 del 1993, in Leg. pen., 1994, II, pag. 174.

[20] A. G. Chizzoniti, Pluralismo confessionale e lotta all’intolleranza religiosa. Le legge 203 del 1993 e l’intesa con l’Unione delle Comunità israelitiche: brevi considerazioni di ordine sistematico, in Quad. dir. e pol. eccles., 1997, II, pag. 356.

[21] G. De Francesco, Commento all’art. 1 della L. 203 del 1993, in Leg. pen., 1994, II, pag. 180.

[22] In tal senso A. G. Chizzoniti, Pluralismo confessionale e lotta all’intolleranza religiosa. Le legge 203 del 1993 e l’intesa con l’Unione delle Comunità israelitiche: brevi considerazioni di ordine sistematico, in Quad. dir. e pol. eccles., 1997, II, pag. 358.

[23] G. De Francesco, Commento all’art. 1 della L. 203 del 1993, in Leg. pen., 1994, II, pag. 181.

[24] A. G. Chizzoniti, Pluralismo confessionale e lotta all’intolleranza religiosa. Le legge 203 del 1993 e l’intesa con l’Unione delle Comunità israelitiche: brevi considerazioni di ordine sistematico, in Quad. dir. e pol. eccles., 1997, II, pag. 359.

[25] G. De Francesco, Commento all’art. 1 della L. 203 del 1993, in Leg. pen., 1994, II, pag. 189.

[26] In tal modo si spiega anche la pena più bassa rispetto a quella prevista ex. art. 416 c.p.

[27] Quad. dir. pol. eccl., 1993, II, pag. 361 e ss.

[28] Quad. dir. pol. eccl., 1996, II, pagg. 536 e ss.

[29] Intesa tra la Repubblica italiana e la Comunità islamica in Italia, Milano, La Sintesi, 1998, pagg. 59 e ss.

[30] G. Long, Le confessioni religiose << diverse dalla cattolica >>. Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, Bologna, il Mulino, 1991, pag. 314.