UNIVERSITA' CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI MILANO - Facoltà di Giurisprudenza - Corso di Laurea in Giurisprudenza
LA TUTELA PENALE DELLA LIBERTA' RELIGIOSA - Tesi di Laurea di LORENZO GRASSANO Matr. 2901015

 

 

II. II. LA TUTELA PENALE DEL SENTIMENTO RELIGIOSO NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE.

 

Uno dei compiti riconosciuti alla Corte costituzionale dalla dottrina, è stato quello interpretare le norme del Codice Rocco alla luce dei mutamenti avvenuti nella società nel corso degli anni, anche, ovviamente, in materia di religione e rapporti con lo Stato.

Tutte le decisioni precedenti alla sentenza n. 188 del 1975 sono ferme nel riconoscere come bene giuridico tutelato dagli art. 402 e ss. la << religione in sé >>, il sentimento religioso. Nella sentenza n. 125 del 1957 [1] si chiarisce come non viene tutelato un diritto individuale, bensì un valore morale e sociale che trascende l’interesse del singolo cittadino: i reati considerati arrecherebbero offesa ad un interesse collettivo.

È proprio con la sentenza n. 188 del 1975 che si raggiunge un punto di svolta.

Non solo si fa riferimento al sentimento religioso << quale vive nell’intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerose di persone legate fra loro dal vincolo di una professione di una fede comune >>, ma si considera il bene tutelato << tra i beni costituzionalmente rilevanti come risulta coordinando gli artt. 2,8 e 19 della Costituzione, nonché gli artt. 3 primo comma e 20 della stessa >>.

Per ottenere un ulteriore passo in avanti bisogna aspettare la sentenza n. 329 del 1997 la quale riconosce la tutela del sentimento religioso quale << corollario >> del diritto di libertà religiosa.

Le conseguenze sono rilevanti. Non solo si esclude che medesime offese arrecate a culti diversi possano giustificare trattamenti sanzionatori differenti, ma si invita il legislatore a prevedere sempre una tutela penale del sentimento religioso, in quanto una sua mancanza, lascerebbe privo di tutela un diritto costituzionalmente rilevante di libertà religiosa.

Si assiste ad un mutamento di prospettiva: se una volta l’oggetto di tutela penale era un interesse collettivo adesso l’attenzione è concentrata sul bene giuridico della libertà religiosa.

Medesime considerazioni possono farsi in relazione all’incidenza che il principio di uguaglianza ha avuto nelle varie decisioni della Consulta.

Sin dalle sue prime decisioni, la Corte si è sempre mostrata ferma nel confermare la costituzionalità di questa normativa, facendo riferimento ai soli principi contenuti negli artt. 7 e 8 Cost.; ciò sulla base del fatto che il legislatore con tali norme avrebbe previsto << una situazione giuridica che è sì di uguale libertà, ma non di identità di regolamento dei rapporti con lo Stato >>[2], per cui nessun principio costituzionale verrebbe leso da una normativa che accorda specifica tutela penale alla religione cattolica rispetto agli altri culti.

Si può assistere ad una medesima evoluzione di pensiero anche per quanto riguarda il principio di laicità, che nella materia considerata viene in rilievo con la sentenza n. 329 del 1997 [3]. La Corte, con la medesima sentenza con cui si pronuncia per la illegittimità costituzionale dell’art. 404, primo comma, precisa che tale principio << non significa indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, ma comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose >>. Una volta appurato che non possono più sussistere differenze di trattamento fra i vari culti religiosi nella normativa de qua, sono due le alternative che si pongono di fronte alla Corte. La prima è quella di assicurare in ogni caso una tutela penale del fenomeno religioso ( come previsto dall’art. 1, quarto comma dell’ Intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane del 27 febbraio 1987 ); la seconda è quella di escludere un tale tipo di tutela, per concentrarsi sull’esigenza di tutelare quei diritti di libertà previsti e garantiti dalla Costituzione ( per es. sulla scorta di quanto previsto dall’art. 4 dell’Intesa con la Tavola Valdese del 21 febbraio 1984 ).

Se nella materia considerata si può affermare che il legislatore abbia assunto un ruolo del tutto << passivo >>, la dottrina è ferma nel ritenere che, con le  pronunce che si sono avvicendate dopo la sentenza n. 440 del 1995, la Corte abbia travalicato i suoi compiti istituzionali.

La Corte è sempre stata consapevole dei suoi ruoli. Con la sentenza n. 14 del 1973 [4], rigettando la questione di legittimità dell’art. 724 c.p. la Consulta chiariva che qualsiasi tipo di privilegio nei confronti del culto cattolico, in materia di tutela penale, era rimesso alle valutazioni del legislatore, e che < il giudizio della Corte può estendersi a sindacare, in base e rilievi quantitativi o a considerazioni di fatto, l’esattezza >> delle valutazioni poste in essere.

La Corte, però, sembra accorgersi che il legislatore rimane inerte nei confronti delle istanze che provengono da parte della dottrina e dai giudici ordinari.

Con la stessa sentenza n. 14 del 1973 e, forse in un modo più deciso, mediante la pronuncia n. 925 del 1988 , in cui si fa riferimento ad un obbligo di << addivenire ad una revisione della fattispecie >>, in modo << da ovviare alla disparità di disciplina con le altre religioni >> la Corte cerca di richiamare il legislatore ai suoi doveri.

Il parlamento continua nel suo atteggiamento, e la Corte si trova costretta a riconoscere che << la perdurante inerzia del legislatore non consente di protrarre ulteriormente l’accertata discriminazione dovendosi affermare la preminenza del principio costituzionale di uguaglianza in materia di religione >> su altre questione << pur apprezzabili, ma di valore non comparabile >> [5]; in ciò la Corte sembra trovare la giustificazione per l’emanazione di tutta quella serie di sentenze, che a partire proprio dalla decisione n. 440 del 1995 [6] ( sentenza che segna un punto di svolta, pronunciando la parziale incostituzionalità dell’art. 724 c.p. ), consentiranno di raggiungere un effettivo cambiamento nella tutela penale del sentimento religioso.

La Corte si sente investita del compito di porre fine ad una situazione normativa che non solo risulta non più compatibile con il contesto legislativo italiano, ma che risulta estranea ai mutamenti avvenuti nella società italiana nel corso dei decenni.

Si riconosce che estendere la portata delle norme incriminate, al fine di comprendere i casi discriminati, avrebbe leso l’art. 25, secondo comma Cost ( per il quale << nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso ). Alla Corte costituzionale non rimane altra scelta se non quella di pronunciarsi per la totale incostituzionalità dell’art. 402 c.p. ( con sentenza n. 508 del 2000 [7] ) e della incostituzionalità parziale delle restanti norme del Capo I Titolo IV.

 

In materia di tutela del sentimento religioso, la Corte costituzionale si pronuncia su norme del codice di molto anteriori alla sua entrata in vigore. Uno dei primi problemi che dovette affrontare la Consulta fu quello di chiarire che la sua competenza non si esauriva solo nei confronti di norme posteriori alla Costituzione, ma poteva comprendere anche leggi e atti aventi forza di legge anteriori al testo costituzionale [8].

 

Prima che la Corte costituzionale cominciasse ad operare, fu la Corte di Cassazione che dovette pronunciarsi in materia di vilipendio della religione dello Stato e offese alla religione mediante vilipendio di cose.

Infatti, la Cassazione, con la sentenza 29 dicembre 1949 [9], affronta sia la questione dei rapporti fra Stato e religione cattolica alla luce dei principi canonizzati negli  artt. 7 e 8 Cost., sia il rapporto esistente fra gli artt. 402 e 403 c.p.

La Cassazione ritiene che il testo costituzionale, ex. Art. 7 Cost. riconosca in modo implicito il contenuto dei Patti Lateranensi, da cui si può logicamente dedurre che la religione cattolica apostolica romana è l’unica religione dello Stato italiano.

La Costituzione considera Stato e Chiesa come ordinamenti primari e originari << aventi giuridica esistenza senza necessità di reciproco riconoscimento >>.

Le intese fra Stato e Chiesa cattolica hanno assunto una speciale posizione di natura costituzionale, in conseguenza di quanto previsto dall’art. 7 Cost. in materia di modifica dei Patti Lateranensi, nel senso che il regime concordatario adottato dalla Costituzione richiede che qualora si << denuncia il patto >> e non si provvede a stipularne un altro, occorre la revisione costituzionale.

Per effetto di tali considerazioni lo Stato italiano conferma i Patti, senza che si possa riconoscere una loro formale ricezione da parte della Costituzione o che si possa parlare di un vero processo di costituzionalizzazione.

Il secondo tema affrontato dalla Corte è quello dei diversi ambiti di applicazione degli artt. 402 e 403 c.p.

Il primo articolo punisce << gli atti, gli scritti e le parole che costituiscono offese alle affermazione dogmatiche o alle manifestazioni rituali della religione medesima >>.

L’art. 403 c.p. punisce chi vilipende << persone fisiche determinate, propaganti tale religione o ministri del culto cattolico, dal quale derivi giusta l’intendimento dell’agente, l’offesa della religione professata dal vilipeso >>.

Gli articoli considerati sarebbero in pieno vigore, proprio sulla base del fatto che, essendo in pieno vigore i Patti, sussiste ancora una religione di Stato, e perciò possono dirsi altrettanto in vigore gli articoli 402 e 403 c.p.

 

Con la sentenza 30 novembre 1957, n. 125 [10], che rappresenta la prima pronuncia dello Corte costituzionale in tema di tutela penale dei culti, viene dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 404 c.p. in relazione agli art. 7 e 8 Cost.

Un primo profilo caratteristico di questa sentenza è il raffronto che viene operato fra il codice Rocco e il codice Zanardelli.

È fatto notare che, << mentre il codice del 1889 mirava a proteggere direttamente  non tanto la religione in sé considerata, quanto la libertà religiosa individuale >>, la nuova codificazione eleva come << obiettivo specifico della tutela penale il sentimento religioso >>, e se il codice Zanardelli stabiliva le stesse pene per offese dirette a culti diversi, in conseguenza del principio dell’uguaglianza dei diritti individuali, il codice Rocco << ha posto la religione cattolica in una situazione diversa da quella delle altre confessioni religiose >>.

Ciò sarebbe giustificato sia da un fattore sociale, la religione cattolica come culto professato dalla maggioranza degli italiani, sia da un fattore giuridico, la stipulazione dei Patti lateranesi stipulati il 11 febbraio 1929.

Tale sistema di miglior tutela penale a favore del culto cattolico non pare contrastare gli artt. 7 e 8 Cost.

L’art. 404 c.p. non lede nessuna norma costituzionale perché, sebbene l’art. 8 Cost. sancisce che << tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge >> non sarebbe riconoscibile una limitazione al libero esercizio dei culti o una lesione della condizione giuridica di chi appartenga ad un culto diverso da quello cattolico, ex. art. 19 Cost.

Sebbene la condizione giuridica dei culti sia di << uguale libertà >>, la Costituzione non pone i diversi culti in una logica di << parità >>, in quanto i rapporti con lo Stato non possono ritenersi identici; a dimostrazione di ciò, basti ricordare che, mentre l'art. 7 Cost. dichiara che "lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ognuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani", l'art. 8, secondo comma, precisa che "le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano".

Il fatto che la Corte costituzionale non affronti il contrasto che può sussistere fra l’art. 1 del Trattato lateranense e la Costituzione non può dirsi casuale: sarà un tratto tipico delle successive pronunce, in cui non verrà mai giustificata la legittimità di una norma sulla base dell’esistenza di una religione di Stato.[11]

 

La prima pronuncia della Corte costituzionale in materia di bestemmia è la sentenza 30 dicembre 1958, n. 79 [12].

Il Pretore di Martina Franca, che con ordinanza 18 ottobre 1957 decide di rimettere la questione alla Corte costituzionale, sostiene la tesi della incostituzionalità dell’art. 724 c.p. sulla base che questa norma considera la religione cattolica quale religione dello Stato, nei medesimi termini con cui fu dichiarata tale dallo Statuto albertino. La Costituzione, ex. art. 8., avrebbe eliminato tale presupposto, prevedendo la libertà delle confessioni religiose e la loro parità.

La Consulta non ritiene che l’art. 724 c.p. concepisca la << religione dello Stato >> in questi termini, e cerca di giustificarsi con un richiamo proprio alla sentenza 1957, n. 125.

Se in quest’ultima pronuncia si salva la legittimità costituzionale dell’art. 404 c.p. sulla considerazione che gli artt. 7 e 8 Cost. distinguono la condizione giuridica della Chiesa cattolica da quella delle altre religioni, adesso la Corte sembra mettere da parte qualsiasi ordine di valutazione giuridica.

Tale diversa impostazione rappresenterà una costante nella giurisprudenza costituzionale in materia.

Il riferimento ad una << religione dello Stato >>, riconosciuta nella religione cattolica [13], che gode di una particolare tutela penale troverebbe la sua giustificazione in un dato quantitativo.

La religione cattolica è la religione della maggior parte degli italiani e una sua più specifica protezione penale deriva dalla più alta reazione sociale che un comportamento ad essa lesivo suscita nel popolo.

<< Questa universalità di tradizioni e di sentimenti cattolici nella vita del popolo italiano é rimasta, senza possibilità di dubbio, immutata con l'avvento della Costituzione >>.

 

È con ordinanza del tribunale di Cuneo del 21 febbraio 1964 [14], che viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 402 c.p. in relazione agli artt. 3, 8, 19 e 20 Cost.

La Corte costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale, in relazione ad ogni questione sollevata, con la sentenza del 13-31 maggio 1965, n. 39 [15].

Sebbene si riconosca che l’art. 3 della Cost. escluda in modo esplicito che differenze di religione possano dar origine a trattamenti differenti fra i cittadini, ciò non porrebbe l’art. 402 c.p. in contrasto con il precetto costituzionale.

Il profilo rilevante in questione si basa sulla considerazione dei soggetti attivi e passivi ex. art. 402 c.p.

Se il reato di vilipendio << può essere compiuto da chi appartiene a religione diversa dalla cattolica come da chi appartiene a quest'ultima, o a nessuna religione, non avendo alcuna rilevanza, nella identificazione del soggetto attivo del reato, la fede religiosa dell'agente >>, il titolare dell’interesse protetto non è il singolo fedele cattolico, perché << l’art. 402 non protegge la religione cattolica come bene individuale di coloro che vi appartengono, né attribuisce ad essi alcun personale vantaggio, giuridicamente tutelabile >>.

La norma impugnata non incide in materia di uguaglianza fra cittadini di fronte alla legge in quanto  << non dà luogo a una distinzione nella loro posizione giuridica, basata sulla religione da ciascuno professata >>.

L’art. 402 c.p. non violerebbe nemmeno il principio dell’uguale libertà delle confessioni religiose sancito ex. art. 8 della Costituzione.

La Corte sembra voglia tenere distinto il profilo di uguale protezione delle libertà religiose, << come tutela delle manifestazioni individuali o associate di fede religiosa >>,e il fatto che l’ordinamento possa trattare i vari culti in modo diverso, in quanto << l’uguale diritto alla libertà, riconosciuto a tutte le confessioni religiose, non significa diritto a una uguale tutela penale, giacchè quest’ultima può essere disposta non solo a protezione della libertà di ciascuna confessione, ma anche a protezione del sentimento religioso della maggioranza dei cittadini, purché da ciò non derivi limitazione di quella libertà >>.

Come avvenne con le sentenze n. 125/1957 e n. 79/1958 è il dato quantitativo che salva la norma penale.

È la stessa Costituzione a prevedere, ex. art 7 e 8 Cost., un trattamento giuridico diverso per la religione cattolica, proprio sulle considerazione che tale culto è quello professato dalla maggior parte degli italiani: sarebbe ciò a salvare la costituzionalità di tutte quelle norme che prevedono una diversa tutela penale di tale religione.

È richiesto solo che nessuna norma vada ad influire << sul libero svolgimento della attività delle altre confessioni >>, o che si ponga come limite per << le manifestazione di fede religiosa di coloro che non appartengono alle religione cattolica >>.

Nemmeno gli artt. 19 e 20 Cost. sembrano condurre alla incostituzionalità dell’art. 402 c.p.; infatti, se l’art. 19 Cost. riconosce al singolo individuo la libertà di professare la propria fede di appartenenza e di farne propaganda, la Consulta non ritiene che il vilipendio sia un comportamento che possa rientrare in tali manifestazioni della fede religiosa [16].

Per quanto riguarda l’art. 20 Cost., viene disconosciuto un possibile contrasto con la Costituzione in quanto è ritenuto che l’articolo in questione non sia causa di una << limitazione della sfera di capacità e di attività delle confessioni diverse dalla cattolica >>, e che pertanto non vi sarebbe nessuna normativa di favore per il culto cattolico [17].

Con le ordinanze 20 marzo 1970 e 5 marzo 1971 delle Preture di Frosinone [18] e Sapri [19] viene ancora una volta sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 724 c.p., in relazione agli artt. 3, 19, 21 Cost.

Se il dato interessante che emerge dall’ordinanza di remissione della Pretura di Frosinone è che viene individuato come oggetto di protezione giuridica dell’art. 724 c.p. il sentimento religioso, e non la religione cattolica, la Pretura di Sapri contesta che un mero dato statistico possa essere assunto a criterio giustificativo per una differente protezione accordata dalla legge penale alle varie confessioni religiose, (tanto più che identificare il sentimento religioso cattolico con il sentimento religioso collettivo << appare oggi, alla luce di recenti e numerosi avvenimenti, quanto mai discutibile >> ).

La Corte costituzionale dichiara non fondate tali questioni con sentenza 27 febbraio 1973, n. 14 [20].

Il fatto che l’art. 724 c.p. punisca la sola bestemmia contro il culto cattolico, violando l’art. 3 Cost., corrisponderebbe << alla valutazione fatta dal legislatore dell’ampiezza delle reazioni sociali determinate dalle offese contro il sentimento religioso della maggior parte della popolazione italiana >>.

Sono vari gli elementi di novità rispetto alle sentenze precedenti.

Si continua a giustificare l’impostazione prevista dal codice Rocco a tutela del sentimento religioso alla luce del diritto di libertà religiosa, dichiarando che << la Costituzione, col riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo ( art. 2 ) e, tra essi, la libertà di religione ( artt. 8 e 19 ), tutela il sentimento religioso e giustifica la sanzione penale delle offese ad esso arrecate >> [21].

Viene abbandonata la tesi che cerca nella Costituzione le ragioni di una tutela penale differente fra culto cattolico e culti diversi, ma che << non può essere considerata irrazionale e illegittima, indipendentemente dalla posizione attribuita alla Chiesa cattolica negli artt. 7 e 8 Cost. >>.

La Corte sembra notare che vi possa essere una sorta di discrepanza fra l’art. 724 c.p. e i principi delle Costituzione quando invita il legislatore a << provvedere a una revisione della norma >> per estendere una protezione penale per offese del sentimento religioso di soggetti non appartenenti al culto cattolico [22].

 

È il Tribunale di Trani, con ordinanza 22 gennaio 1973 [23], a sollevare questione di costituzionalità degli articoli 403 e 405 c. p., in quanto contrastanti con gli artt. 3, 21 e 25 Cost.

Il richiamo ai due ultimi articoli costituisce un’ulteriore novità, in quanto non si era mai verificato in occasione dei precedenti giudizi nei riguardi degli art. 404 e 402 c.p.

I motivi di remissione non contengono elementi di novità.

L’art. 403 c.p. si porrebbe contro l’art. 3 e 21 Cost. sia perchè configura un diverso trattamento sanzionatorio per un’identica figura delittuosa posta in essere contro i culti ammessi nello Stato, e inoltre per il fatto che limiterebbe la libertà di manifestazione del pensiero.

Importante è il richiamo all’art. 25 Cost.: la violazione deriva dal fatto che la nozione di vilipendio è così indeterminata che si concede al giudice penale troppa discrezionalità << nella individualizzazione della manifestazione di pensiero ritenuta vilipendiosa >>.

Nei riguardi dell’art. 405 c.p. il dubbio di costituzionalità è posto a confronto con l’art. 3 Cost., nei medesimi termini creati per l’art. 403 c.p.

La Corte costituzionale, con sentenza 8 luglio 1975, n. 188, [24] dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 403 e 405 c.p. per manifesta irrilevanza, e infondata quella dell’art. 403 c.p. per contrasto con gli artt. 21 e 25 Cost.

Il primo profilo è giustificato sulla base che << ove la disparità di trattamento risultante dal raffronto tra gli artt. 403 e 405, da un lato, e l'art. 406, dall'altro, fosse da giudicare priva di giustificazione e quindi costituzionalmente illegittima, la pronuncia ( della Corte )  non precluderebbe l'applicazione delle norme degli artt. 403 e 405 nel giudizio a quo, avente ad oggetto un caso di offesa alla religione cattolica e di turbamento di funzioni della stessa >>.

Analizzando la supposta violazione dell’art. 403 c.p. con il principio di legalità delle leggi e delle pene ex. art. 25 secondo comma Cost. la Consulta si richiama ad una sua precedente pronuncia in materia di vilipendio, la sentenza n. 20 del 1974 [25], ( in cui affermò che non si pongono in contrasto con detto principio le disposizione normative a forma libera, che richiamano << con locuzioni generiche ma di ovvia comprensione, concetti di comune esperienza o valori etico sociale oggettivamente accertabili dall’interprete >> ).

La sentenza prosegue dimostrando l’infondatezza della censura mossa all’art. 403 c.p. di ledere il diritto di libera manifestazione del pensiero, ex. art. 21 Cost.

Il sentimento religioso trova una giustificazione nella Costituzione, agli articoli 2, 8 e 19 Cost. e, in modo indiretto negli artt. 3, primo comma, e 20 Cost.

Il vilipendio di una religione può limitare in modo legittimo gli interessi tutelati ex. art. 21 Cost. purché limitata in << giusti confini >>, che sono riconosciuti da una parte, nel comportamento di chi addita a pubblico disprezzo o dileggio, mentre dall’altra dall’esigenza di << di rendere compatibile la tutela penale accordata al bene protetto dalla norma in questione con la più ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero in materia religiosa >>.

La Corte chiarisce che non si deve confondere il vilipendio << né con la discussione su temi religiosi, così a livello scientifico come a livello divulgativo, né con la critica e la confutazione pur se vivacemente polemica; né con l'espressione di radicale dissenso da ogni concezione richiamantesi a valori religiosi trascendenti >>. Tale figura è integrata invece da comportamenti quali  << contumelia, lo scherno, l'offesa, per dir così, fine a sé stessa, che costituisce ad un tempo ingiuria al credente (e perciò lesione della sua personalità) e oltraggio ai valori etici di cui si sostanzia ed alimenta il fenomeno religioso, oggettivamente riguardato.

In questa decisione la Corte sembra raggiungere un punto importante nel suo percorso di controllo costituzionale della normativa de qua.

Non solo viene riconosciuto al vilipendio, seppur in modo indiretto, natura di manifestazione di pensiero, ma cambia l’oggetto giuridico nelle fattispecie considerate.

Le norme del Capo I  Titolo IV non tutelano più il sentimento religioso della maggior parte della popolazione, bensì ciò che sarebbe oggetto di tutela sarebbe in primo luogo << il sentimento religioso individuale, quale vive nell’intimo della coscienza individuale >>, sebbene possa poi trovare riflesso anche in << gruppi più o meno numerosi di persone legate fra loro dal vincolo della professione di una fede comune >>.

Non solo il sentimento religioso è elevato a bene costituzionalmente rilevante, ma esso viene considerato il vero oggetto di tutela della normativa considerata [26].

 

Le innovazioni prodotte dall’Accordo di modifica dei Patti lateranense, e il contenuto del punto 1 del Protocollo addizionale, suscitano numerose aspettative fra la dottrina e la giurisprudenza di merito, in relazione a quelle che sarebbero dovute essere le conseguenza sulla concezione della Corte costituzionale in materia di tutela del sentimento religioso:aspettative che andranno del tutto deluse.

Le ordinanze delle Preture di Monfalcone [27], 25 maggio 1987; di Trento [28], 26 novembre 1985; Roma [29], 9 aprile 1986; Sestri Ponente [30], 4 febbraio, 1986; La Spezia [31], 17 aprile 1986 vennero riunite in un unico giudizio, stante la loro parziale coincidenza delle questione di legittimità costituzionale sollevate.

Oggetto di censura è l’art. 724 c.p. primo comma; sebbene le ordinanze mettano in discussione l’articolo sotto vari profili [32], la Corte rileva come siano tutte mosse dalla novità rappresentata dal primo punto del Protocollo Addizionale dell’Accordo di modifica del Concordato lateranense del 1929.

Le varie Preture non sono d’accordo sulla portata innovatrice di questa disposizione.

Per le Preture di Trento, Sestri Ponente, Monfalcone, e La Spezia, la religione cattolica dovrebbe essere ancora ritenuta << religione dello Stato >>.

È la sola Pretura di Roma a sostenere che, proprio in venir meno di tale principio, << non consentirebbe più di individuare in astratto quale sia la religione di Stato, per cui la fattispecie di cui all’art. 724 c.p., essendo incerto il significato di un suo elemento costitutivo >>, non potrebbe ritenersi sufficientemente determinata.

La Corte ritiene non fondata la questione, senza pronunciarsi affatto nei riguardi delle altre censure.

Il venir meno dell’originale significato dell’espressione << religione dello Stato >>, non sembra escludere che, per quanto riguarda il reato di bestemmia, esso abbia assunto un nuovo e diverso significato, quello di religione cattolica, << in quanto già religione dello Stato >> [33].

Questo significato, ben determinato, è giustificato dall’entrata in vigore della legge 25 marzo 1985, n. 121, che rende operativo il principio sancito proprio dal punto 1 del Protocollo Addizionale, il quale non di per sé non apporta nessun elemento di novità.

La Corte richiama i motivi di fondo che giustificarono le sentenze n. 79 del 1958 e n. 14 del 1973, che si basavano sulla considerazione che l’art. 724 c.p. non si riferisce alla religione cattolica sotto un profilo formale, bensì ne fa riferimento quale religione maggiormente diffusa fra la popolazione.

La Consulta afferma che il diverso trattamento accordato al culto cattolico non può giustificarsi più con l’appartenenza ad essa << della quasi totalità dei cittadini italiani >> ( come fece la sentenza del 1958 ), e nemmeno sulla volontà di proteggere il sentimento religioso della maggior parte degli italiani ( secondo la concezione della sentenza n. 14 del 1973 ).

Il punto 1 del Protocollo del 1984 supera qualsiasi contrapposizione fra la religione cattolica-religione dello Stato e i << culti ammessi >>, e rende non più accettabile un diverso trattamento normativo che si basi sul dato numerico: ciò può trovare giustificazioni solo alla luce di ragioni di ordine normativo.

Un diverso trattamento di tutela però esiste, e la Corte, quasi per non cadere in contraddizione, rileva che la fattispecie prevista ex. art. 724 c.p. << può trovare un qualche fondamento nella constatazione, sociologicamente rilevante, che il tipo di comportamento vietato dalla norma impugnata concerne un fenomeno di malcostume divenuto da gran tempo cattiva abitudine per molti >>.

Ancora una volta la Corte si preoccupa di forzare il legislatore verso un mutamento della normativa in materia, riconoscendo quasi un obbligo di raggiungere << una revisione della fattispecie, così da ovviare alla disparità di disciplina con le altre religioni >> [34].

Negli anni successivi all’ Accordo di revisione, si può notare una diversa impostazione di principio della Consulta nell’evitare le censure di legittimità costituzionale prospettate per il reato di bestemmia, rispetto a quanto accade per i reati ex. art. 402-406 c.p.

I motivi possono ritrovarsi non solo nell’esiguo numero di decisioni in materia di << delitti contro la religione dello Stato e i culti ammessi >>, ma anche una maggior attenzione ai profili di costituzionalità per le censure mosse contro l’art. 724 c.p.

Bisogna aspettare la sentenza 23 aprile del 1987, n. 147 [35], per avere la prima pronuncia in tema di << delitti contro il sentimento religioso >>, una sentenza che si limita ad ordinare la restituzione degli atti al giudice ordinario. Un ulteriore motivo che può essere preso in considerazione è il fatto che proprio in questi anni la Consulta, per smaltire il gran numero di lavoro arretrato, si dichiara molto spesso per la inammissibilità o per la restituzione degli atti al giudice a quo.

Il Tribunale di Firenze, con ordinanza 3 ottobre 1980 [36] ( e quindi anteriore all’Accordo di revisione ), solleva questione di costituzionalità dell’art. 402 c.p. per contrasto con gli artt. 7, primo comma, 8, primo comma, e 19 Cost.

Per il Tribunale i richiamati articoli della Costituzione, rendendo non più esistenti una religione dello Stato, comportano la illegittimità ogni norma volta a tutelare la religione cattolica come religione dello Stato.

Per mezzo dell’art. 8 Cost. lo Stato, da una posizione di << agnosticismo e laicismo >>, non permetterebbe più che un culto possa essere elevato a religione di Stato.

Per la Corte costituzionale spetterebbe << al giudice a quo verificare se, alla stregua di tale innovazione normativa, la questione, così come sollevata, sia ancora rilevante >>, rimettendo così gli atti al Tribunale di Firenze.

 

Con la sentenza 31 luglio 1989, n. 479 [37], la Corte, si pronuncia per la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, prospettata nei riguardi dell’art. 403 c.p. dalla Pretura di Orvieto, con ordinanza 29 dicembre 1988 [38].

Il giudice remittente ritiene che la norma considerata si ponga in contrasto con gli artt. 2, 3 commi primo e secondo, 21, 25, comma secondo, e 27 commi primo e terzo Cost.

Il profilo caratteristico di questa ordinanza di remissione è il fatto che si sostenga come il principio di determinatezza non venga leso dall’abolizione della religione dello Stato, bensì dal significato proprio del termine vilipendio [39], << che non permetterebbe la esatta pre-individuazione del contenuto del precetto penale >>; non sarebbe più possibile << distinguere con sufficiente certezza il confine tra manifestazione di pensiero consentita e manifestazione di pensiero non consentita e quindi di valutare a priori la liceità o meno della propria condotta >>.

Per la Corte è facile pronunciarsi per la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, viste le insufficienti motivazioni addotte dalla Pretura di Orvieto; in particolare vi sarebbe contraddizione fra la prospetta indeterminatezza dell’art. 403 c.p. e la definizione di vilipendio così come riconosciuta dalla stessa Pretura [40].

 

Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 14 novembre 1991, solleva questione di costituzionalità dell’art. 724 c.p. primo comma in riferimento agli artt. 3, 8, 25 secondo comma Cost.

I motivi addotti dal Tribunale sono le comune ragioni che si possono trovare in altre ordinanze di remissione inerenti al reato di bestemmia.

L’incostituzionalità della norma si basa sul fatto che si vuole tutelare la << religione dello Stato >>, a fronte del fatto che il Protocollo addizionale all’Accordo di modifica del Concordato lateranense prevede espressamente il venir meno della religione cattolica come religione dello Stato italiano; si configurerebbe in tal modo violazione del principio di determinatezza della fattispecie penale ex. art. 25 Cost.

Il Tribunale cerca anche di contestare il contenuto delle precedenti affermazioni della Corte costituzionale in quanto non avrebbe senso affermare, come fece a suo tempo la Corte con la sentenza n. 14 del 1973, che la religione cattolica è ancora la religione della maggioranza degli italiani, perché in tale contesto << non verrebbe in discussione la ratio della norma incriminatrice, bensì la sua incompatibilità con il principio di tassatività >>. Non sarebbe nemmeno salvo il principio della religione cattolica << in quanto già religione dello Stato >>, così come affermato dalla sentenza n. 925 del 1988 della Consulta, in quanto l’art. 724 c.p. non si riferisce direttamente alla religione cattolica, << essendo questa oggetto di tutela solo indiretta, per il fatto della sua qualificazione come religione di Stato >>. In ogni caso, anche quando si volesse riconoscere la religione cattolica come religione dello Stato, sarebbero in tal caso lesi gli artt. 3 e 8 della Cost.

Con la sentenza n. 440 del 1995 [41], la Corte dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 724 c.p. limitatamente alle parole << i Simboli, o le Persone venerate nella religione dello Stato >> [42].

La pronuncia della Corte afferma che, sebbene la nozione giuridica di << religione dello Stato non sia più presente nel nostro ordinamento, ciò non comporterebbe una lesione del principio di determinatezza da parte dell’art. 724 c.p. Vi sarebbe spazio solo per due alternative: il venir meno di un contenuto normativo della norma considerata, o ritenere che l’espressione << religione dello Stato >> sia solo un modo che il legislatore usa per riferirsi alla religione cattolica.

Si ricorda come sia stata proprio quest’ultima interpretazione ad essere stata accolta dalla Corte, con la sentenza n. 925 del 1988 che parlò proprio di religione cattolica << in quanto già religione dello Stato >>, e si ritiene che ciò sia sufficiente per proteggere la norma da censure di legittimità sotto questo profilo.

La Corte arricchisce il proprio ragionamento quando tratta gli altri motivi di censura, ricostruendo il bene giuridico protetto dalla normativa.

Secondo l’impostazione originaria la religione dello Stato era la religione cattolica, in conseguenza sia dell’importanza che si attribuiva al sentimento religioso, <<quale fattore morale di unità della nazione >>, sia per il fatto che il reato di bestemmia, collocato nelle contravvenzioni << concernenti la polizia dei costumi >>, era riconoscibile quale atto di malcostume.

Se con la sentenza n. 79 del 1958, il bene giudico protetto è la religione cattolica in quanto culto praticato dalla maggior parte della popolazione, è solo con la sentenza del 1973, n. 14, che si ha un’effettiva svolta nella materia considerata, riconoscendo nel sentimento religioso la vera entità su cui si accentra l’attenzione della materia de qua.

La Corte richiama il contenuto della sentenza n. 925 del 1988 con le relative conclusioni: non solo abbandonando qualsiasi criterio quantitativo, ( l’art. 8 Cost. troverebbe piena attuazione solo con una normativa che protegga << la coscienza di ciascuna persona che si riconosca in una fede >> ), ma che se gli artt. 402 e ss. hanno come bene giuridico la religione, l’art. 724 c.p. riconosce in ciò il buoncostume.

La Corte ritiene che il criterio numerico sia da abbandonare, però dimostra di non condividere più l’opinione che vede nell’art. 724 c.p. un norma che non tuteli, sebbene in minima parte, anche la religione; così facendo si perderebbe la ratio che sottende tale previsione legislativa.

La Corte opera un giudizio di comparazione fra i diversi valori, di rilievo costituzionale, dell’uguaglianza in materia religiosa e il buon costume.

In tal modo si ritiene pertinente il richiamo agli artt. 3 e 8 Cost. in quanto l’art. 724 c.p. opererebbe un diversa tutela penale del sentimento religioso individuale non giustificato da nessuna norma costituzionale.

L’art. 724 c.p. punisce comportamenti che la Corte ritiene di dover tenere ben distinti, e può essere diviso in due parti.

La prima parte punisce la bestemmia contro la Divinità, indicata in modo astratto e senza specificazioni, ma per dare a questa entità un significato preciso e concreto, è necessario rifarsi di volta in volta alle singole confessioni: di conseguenza vengono tutelati contro espressioni offensive il credente in quanto tale, senza discriminazioni ma, come ricorda la Corte, << nell’ambito del concetto costituzionale di buoncostume ( 19 e 21, sesto comma Cost.) >>.

La seconda parte della norma punisce invece la bestemmia diretta verso << i Simboli o le Persone venerate nella religione dello Stato >>, e si ritiene che sia proprio ciò a ledere il principio di uguaglianza.

Il ragionamento della Corte pare trovare conforto nell’utilizzo che il legislatore fa del termine << venerati >>, che non parrebbe riferibile alla divinità, per cui << dovendosi ritenere che il legislatore abbia fatto uso preciso e consapevole delle espressioni impiegate, il riferimento alla “religione dello Stato” può valere solo per i Simboli e le Persone >>, impedendo una censura per incostituzionalità del riferimento alla divinità [43].

In conseguenza del divieto di decisioni additive in materia penale, la Corte esclude che essa stessa possa estendere la normativa di questa parte anche alle altre confessioni religiose; perciò ritiene di doversi pronunciare per la illegittimità costituzionale dell’art. 724 c.p. limitatamente alle parole << i Simboli o le Persone venerate nella religione dello Stato >> [44].

Così facendo non verrebbe leso nessun principio costituzionale, tanto meno il principio di uguaglianza, in quanto si punisce il reato di bestemmia senza riferimento specifico ad una fede religiosa [45].

 

La Pretura di Trento, con ordinanza 6 Dicembre 1995 [46], solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 404 c.p. in relazione agli artt. 3 e 8 Cost. Risulterebbe contrario ai principi costituzionali la previsione normativa per cui vi siano pene differenti a seconda che il reato sia diretto alla << religione dello Stato >> o ai << culti ammessi >> ex. art. 406 c.p.

Per il giudice rimettente il venir meno del principio della religione dello Stato, il principio costituzionale di laicità dello Stato e la promulgazione della legge 25 marzo 1985, n. 121 << avrebbero dovuto indurre il legislatore a rivedere tutte quelle norme di carattere ordinario che viceversa ancora sanciscono una disparità di trattamento >>, ma così non è stato; inoltre viene richiamata la recente sentenza n. 440 del 1995, nella parte in cui rende palese il principio per cui una norma << che differenzia la tutela penale del sentimento religioso individuale a seconda della fede professata >> si porrebbe sempre contro la Costituzione.

La Consulta, con sentenza novembre 1997, n. 329 [47], ritiene la questione fondata e si pronuncia per la illegittimità costituzionale dell’art. 404, primo comma, c.p. nella parte in cui prevede un diverso trattamento penale rispetto a quanto previsto ex. art. 406 c.p [48].

Come già in precedenza, la Corte sviluppa il suo ragionamento non solo in relazione a quelle che furono le intenzioni del legislatore del codice Rocco, ma anche sulle implicazioni che possono aversi dalle sue stesse sentenze [49].

Se nel 1930 la capacità di porsi come un fattore di unità morale per la nazione costituiva la ratio per una particolare tutela penale della religione cattolica in quanto << religione dello Stato >>, ciò non può più valere con l’avvento della Costituzione che non permette che la religione sia uno strumento per raggiungere le finalità dello Stato, e viceversa.

Sebbene la dottrina ritenga che la presente conclusione sia la conseguenza logica di quanto deciso nella sentenza n. 440 del 1995, la Consulta non pare preoccuparsi di stabilire un nesso di continuità con i precedenti in materia; anzi, sottolinea come i passati argomenti adotti non possano essere più utilizzati per giustificare una diversità di trattamento.

Dalla Costituzione si può desumere che la protezione del sentimento religioso è legata al principio di libertà di religione, e ciò << per abbracciare l’esperienza religiosa di tutti coloro che la vivono, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede delle diverse confessioni >>.

Le terminologia in materia è definita << anacronistica >> [50] e le espressioni a cui bisognerebbe fare sempre riferimento sarebbero la << religione cattolica >> e tutte le << confessioni religiose >>, diverse da quella cattolica, che rientrano nella protezione dell’art. 8 Cost.

La Corte costituzionale sembra accogliere, seppur molto tardivamente, le richieste che presero forma durante i lavori di preparazione al codice Rocco, quando nega che, nella materia de qua, ci si possa riferire alla maggior ampiezza e intensità delle reazioni che vengono suscitate nella popolazione quando è offesa la religione cattolica: << il richiamo alla cosiddetta coscienza sociale, se può valere come argomento di apprezzamento delle scelte del legislatore sotto il profilo della loro ragionevolezza, è viceversa vietato là dove la Costituzione, nell’art. 3, comma 1, stabilisce espressamente il divieto di disciplinare differenze in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l’appunto la religione >>.

I diversi comportamenti che nel tempo possono animare una società non possono incidere sul principio costituzionalmente garantito di libertà.

Se dalla società nascono certi tipi di reazioni << tanta maggiore forza tali reazioni assumono quanto più grande è la loro diffusione nella società, si comprende la contraddizione insita nel subordinare a esse la garanzia dell’uguaglianza, una garanzia che, rispetto ad alcuni potenziali fattori di disuguaglianza ( tra i quali la religione ), concorre alla protezione delle minoranze >>.

È ciò che si chiedeva quasi settant’anni prima in sede parlamentare: una tutela penale dei culti che non conoscesse differenze, sulla base che sono proprio le minoranze che necessitano di una specifica tutela in materia, e non solo le maggioranze [51].

 

Con la sentenza novembre 2000, n. 508 [52] la Corte arriva a decretare la piena incostituzionalità della previsione normativa contenuta nell’art. 402 c.p.

L’importanza di questa decisione è mitigata solo dal fatto che giunge in un periodo dove le pronunce giurisprudenziali in materia possono dirsi ormai scarse,e in cui l’attenzione sociale verso il fenomeno religioso in generale, ed i reati contro il sentimento religioso in particolare, è calato in modo considerevole.

Con ordinanza 5 novembre 1998 [53] la Corte di Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 402 c.p. in relazione agli artt. 3, primo comma e 8 primo comma della Costituzione.

Il giudice remittente fa propri alcuni passaggi giurisprudenziali che la Corte ha sviluppato nel corso dei decenni.

Per la Corte di Cassazione il principio di una << religione dello Stato >> non solo risulta incompatibile con il principio della laicità nei termini in cui emerge dalle più recenti sentenze della Consulta [54], ma risulta ormai superato dalle stesse modifiche concordatarie operate nel 1984.

Il termine << religione dello Stato >> sarebbe solo un << tramite linguistico >> rimasto al legislatore per riferirsi alla religione cattolica.

Le conclusioni a cui la Corte arriva con la sentenza n. 329 del 1997 non paiono più accettabili alla luce dei principi costituzionali. Se il privilegio che il legislatore del 1930 accordava alla religione cattolica trovava la sua ratio nella sua capacità di porsi come fattore di unità nazionale, ciò non vale più nell’attuale contesto normativo in cui << la Costituzione esclude che la religione possa considerarsi strumentalmente rispetto alle finalità dello Stato e viceversa >>.

Riprendendo il pensiero sotteso alle sentenze della Consulta emanate in materia negli anni precedenti, la Corte di Cassazione giunge alla conclusione che la religione cattolica, perdendo lo status di << religione di Stato >>, assume pari dignità rispetto ad ogni altro culto, conformemente ai principi costituzionali.

È il principio di laicità dello Stato, il principio da cui si dipana il ragionamento della Corte costituzionale [55]. È questo << principio supremo >> ( come spesso viene definito dalla stessa Corte ) che impone allo Stato di porsi in posizione di assoluta equidistanza e imparzialità nei confronti del fenomeno religioso, senza che possano assumere rilievo alcun dato quantitativo o reazioni sociali  ( secondo le sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997 ).

Dinanzi alle varie intese stipulate dallo Stato con le varie confessioni religiose, ex. art. 8, ultimo comma Cost. emerge una volontà comune di garantire un trattamento equiparatrice sotto il profilo della tutela penale: assicurando una pari dignità nella tutela penale ( es: l’art. 1, quarto comma, dell’intesa con le Comunità ebraiche italiane del 27 febbraio 1987 ), oppure escludendo una tutela penale diretta (  magari, secondo il modello proposto dall’art. 4 dell’intesa con la Tavola valdese del 21 febbraio 1984 ).

In conseguenza di questi mutamenti normativi l’art. 402 c.p. si trova ad essere un vero e proprio << anacronismo >>, una sorta di difetto nell’impianto [56] normativo dello Stato a cui, dopo la persistente inerzia del legislatore, la Consulta si trova a porre rimedio [57].

Vi è un profilo delle conclusioni a cui giunge la Consulta che sembra porsi in contrasto con quanto deciso nella precedente sentenza n. 440 del 1995.

Adesso la Corte dichiara non più accettabile il fatto che, in sede di giudizio della legittimità costituzionale di norme penali, si possano pronunciare decisioni che ne estendano la portata per comprendervi i casi esclusi; ciò violerebbe il principio di riserva di legge in materia di reati e pene ex. art. 25, secondo comma Cost.

Possono solo pronunciarsi sentenze che eliminino del tutto la norma contestata, sentenze ablative, come questa che pronuncia la incostituzionalità totale dell’art. 402 c.p .

 

Con ordinanza dicembre 2000 [58], la Corte di cassazione solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 405 c.p. in relazione agli artt. 3, primo comma e 8, primo comma Cost.

Il diverso trattamento sanzionatorio, con quanto previsto ex. art. 406 c.p. in relazione se il reato sia commesso contro il culto cattolico ovvero contro un culto ammesso dallo Stato contrasterebbe contro i principi di pari dignità dei cittadini e che tutte le confessioni sono ugualmente libere davanti alla legge. Ciò in contrasto con il già citato principio di laicità dello Stato, che lo porrebbe in una posizione di assoluta equidistanza e imparzialità di fronte al fenomeno religioso.

La Corte costituzionale, con sentenza luglio 2002, n. 327 [59], ritiene la questione fondata, e si pronuncia per l’illegittimità costituzionale dell’art. 405 c.p. nella parte in cui per i comportamenti che turbino funzioni religiose del culto cattolico, prevede pene più gravi, e non quelle  minori stabilite dall’art. 406 c.p. per i medesimi fatti commessi contro gli altri culti.

La sentenza richiama i principi che la spinsero a pronunciare la sentenza n. 329 del 1997 ai fini di una << unificazione del trattamento sanzionatorio per una eguale protezione del sentimento religioso >>.

Le medesime ragioni che si posero a base della predetta decisione, vengono ora giustificate per sottoporre le previsioni ex. art. 405 c.p. al più lieve trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 406 c.p.

Il principio di laicità dello Stato, che viene interpretato in una sorta di parallelismo con il principio di uguaglianza,  è ancora una volta richiamato dalla Corte per ricordare come esso implichi profili di equidistanza e imparzialità verso il fenomeno religioso; ciò che non può essere accettato è che il fatto di chi impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose di culti diversi da quello cattolico << sia ritenuto meno grave di quello di chi compia i medesimi fatti ai danni del culto cattolico >>.

Sebbene anche in questo caso l’art. 406 c.p. sia assunto a tertium comparationis, la Consulta si discosta dalla pronuncia n. 329 del 1997, in quanto adesso precisa che risulta estraneo ai compiti della Corte capire se la norma in oggetto costituisca l’attenuante di un reato base o debba essere considerata una previsione autonoma.

Da ultimo, la Corte tiene a precisare che l’espressione culti << ammessi >>, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, debba intendersi come << culti diversi da quello cattolico >>.

 

Il Tribunale di Verona, con ordinanza del 16 marzo 2004, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 403 c.p. primo e secondo comma, in relazione agli artt. 3, primo comma e 8, primo comma Cost.

Le motivazione della remissione non si discostano dalle normali ragioni che hanno, quasi sempre, sotteso le ordinanze in materia; il giudice a quo si richiama alle precedenti pronunce della Corte costituzionale per sottolineare come da esse sia ormai del tutto possibile desumere il principio di una pari libertà delle confessioni religiose e che qualsiasi tipo di discriminazione normativa sia in materia debba risultare inammissibile.

Con la sentenza n. 168 del 2005 la Corte, richiamandosi alle sentenze n. 329 del 1997, n. 508 del 2000, n. 327 del 2002, che si pronunciarono rispettivamente in relazione agli artt.  404, 402 e 405 c.p. ribadisce come << le esigenze costituzionali di eguale protezione del sentimento religioso che sottendono al trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica, sia alle equiparazione delle altre confessioni religiose >> sono intrinsecamente legate al principio di uguaglianza e a quello di laicità dello Stato.

Anche l’articolo in questione tutela, al pari di tutte le norme del Titolo IV Capo I, il sentimento religioso, ma ciò che non pare più accettabile, dopo l’emanazione della Costituzione e le recenti pronunce della Consulta, è << la discriminazione sanzionatoria tra la religione cattolica e le altre confessioni >>.

Alla Corte non rimane altro che pronunciare la incostituzionalità dell’art. 403, primo e secondo comma, c.p. << nella parte in cui prevede, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall’art. 406 dello stesso codice >>.



[1] In Foro it., 1957, I, pag. 1913.

[2] In Foro it., 1957, I, pag. 1913.

[3] In Dir. eccl., 1998, III, pag 3.

[4] In Giur. cost., 1973, pag. 69.

[5]  Corte costituzionale, sentenza n. 440 del 1995, in Quad. dir. pol. eccl., 1995, III, pag. 1045.

[6] In Quad. dir. pol. eccl., 1995, III, pag. 1045.

[7] In Dir. fam., 2001, pag. 489.

[8] Ciò avvenne con la sentenza 14 giugno 1956, n. 1, in Giur. cost., 1956, I. ( relativa alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 113 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 773, in relazione all’art. 21 Cost.).

Per la Consulta la Costituzione fa riferimento solo a << questioni di legittimità costituzionale delle leggi, senza fare alcuna distinzione >>, e che non pare contestabile come << il rapporto fra leggi ordinarie e leggi costituzionali e il grado che ad esse rispettivamente spetta nella gerarchia delle fonti non mutano affatto, siano le leggi ordinarie anteriori, siano posteriori a quelle costituzionali. Tanto nell’uno quanto nell’altro caso la legge costituzionale, per la sua intrinseca natura nel sistema di Costituzione rigida, deve prevalere sulla legge ordinaria >>. La dottrina ha sottolineato che la Corte costituzionale rifiuta di ritenere prevalente, su un piano logico giuridico, il giudizio di abrogazione tacita nei confronti di quello inerente alla legittimità costituzionale. Ciò sarebbe uno dei motivi per cui i diritti di  libertà in materia religiosa non hanno goduto di quella libertà riconosciuta loro dalla Costituzione. S. Lariccia, << Teoria e prassi della libertà di religione >>, Bologna, Il Mulino, 1975, pag. 417, per il quale << il giudizio sull’esistenza giuridica di una legge precede quello sulla sua legittimità, e che pertanto, quando una disposizione legislativa anteriore alla Costituzione sia con quest’ultima in contrasto, il giudizio sulla sua esistenza, in via pregiudiziale rispetto al giudizio di legittimità costituzionale, compete al magistrato ordinario >>.

[9] In Giust. pen., 1950, II, pag. 199.

[10] In Foro it., 1957, I, pag. 1913.

[11] Il R. Venditti, Sul vilipendio della religione dello Stato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1958, pag. 120,  accoglie con favore il fatto che si venne a riconoscere come oggetto di tutela penale un bene collettivo, come il sentimento religioso; ciò aprirebbe la possibilità di attribuire un diverso trattamento giuridico in relazione alla sua diversa diffusione fra la popolazione. L’Autore avanza anche la proposta di estendere l’applicazione degli articolo 402 c.p. e 724 c.p., con una diversa intensità di tutela, anche agli altri culti, sulla base dell’importanza che la religione assume per la vita morale di un popolo. A. Ravà, Contributo allo studio dei diritti individuali, e collettivi di libertà religiosa della Costituzione italiana, Milano, Giuffrè, 1959, pagg. 93-97, la quale si pone in forte critica contro le conclusioni a cui perviene la sentenza. È opinione dell’autrice che, una volta dichiarata la incostituzionalità dell’intera normativa compresa nel Capo I, si dovrebbe aggiornare il concetto di vilipendio che rispetti gli artt. 19 e 21 Cost. 

[12] In Dir. eccl.,1959, II, pag. 81.

[13] Nella stessa sentenza la Corte ricorda come << il Codice penale talora, ( art. 405 ), senza speciale motivo, parla non già di una religione dello Stato, ma di religione “cattolica” >>.

[14] In Dir eccl.,1964, II, pag. 327.

[15] In Foro it., 1965, I, pag. 929.

[16] Critico sul punto F. Finocchiaro, Appunti in tema di vilipendio della religione dello Stato  e libera manifestazione del pensiero, in Diritto canonico-Diritto ecclesiastico, 1963, pagg. 555-564, per il quale anche se la Costituzione dovesse riconoscere il culto cattolico come religione dello Stato, ciò non potrebbe giustificare una normativa penale che punisce un comportamento sussumibile sotto la previsione ex. art. 19 Cost.

[17] Numerose sono le critiche sollevate dalla dottrina. E. Vitali, Disuguaglianza nell’uguaglianza?, in Giur. it., 1965, I, pagg. 1289-1290, e Condorelli, Interferenze fra norme costituzionali: a proposito del vilipendio della religione cattolica, in Dir. eccl., 1965, II, pag. 337 fanno notare come la Consulta non compia nessun progresso interpretativo nei riguardi della materia considerata.

Non solo in relazione ai profili già esaminati nelle precedenti decisioni, vengono riprodotti gli stessi motivi di ordine sostanziale, ma si contesta il modo superficiale con cui vengono affrontate le nuove censure ad essa presentate.

Per Vitali l’esigenza di riferirsi alla particolare posizione della Chiesa e la destinazione di un regime penale diverso per la religione cattolica sono concetti che devono tenersi ben distinti. Giustificare la normativa penale sulla base del dato statistico significa disattendere la volontà della Costituzione., la quale si limita a prevedere un particolare regime giuridico fra Stato e Chiesa cattolica, ma che non è mai elevato a cause di un diverso trattamento penale.

A. Piola, Legittimità dell’art. 402 cod. pen. e nozione di religione dello Stato, in Foro it., 1965, I, pag. 930, il quale si trova d’accordo con le conclusione della sentenza. Il diverso trattamento penale ex. art. 402 c.p. trova legittimazione costituzionale nell’art. 7 Cost., che attribuisce nuova ragione alle norme speciali contenute nei Patti Lateranense.

L.Spinelli, Nuove dimensioni del diritto di libertà religiosa nella giurisprudenza costituzionale, in Dir. eccl., 1987, pag. 1067, ritiene che con tale decisione << la Corte costituzionale è venuta a dare un più ampio respiro d’interpretazione all’art. 19 Cost., in quanto si è richiamata a contenuti già espressi, quali la libertà di professione di fede e di culto, ponendo in evidenza che la condizione giuridica di chi professa un culto diverso dal cattolico, secondo quanto permane inalterata nelle sua pienezza e pari a quella che professa un culto cattolico, secondo quanto disp9one la norma dell’art. 19 >>.

Per M. Condorelli, Interferenze fra norme costituzionali: a proposito del vilipendio della religione cattolica, in Dir. eccl., 1965, II, pag. 340, la presente sentenza conterebbe una contraddizione nei riguardi dell’interesse tutelato ex. artt. 403-406 c.p., con quanto stabilito nella pronuncia n. 125 del 1957: non sarebbe più un interesse collettivo, bensì una libertà individuale.

[18] In Dir. eccl., 1970, II, pag. 333.

[19] In Dir. eccl., 1972, II, pag. 275.

[20] In Giur. cost., 1973, pag. 69.

[21] A. Baldassare, E’ costituzionale l’incriminazione della bestemmia?, in Giur, cost., 1973, pag. 75-76, nota che la Consulta sembra esulare la questione se la bestemmia rientra fra le manifestazioni di pensiero previste dall’art. 21 Cost, forse nella convinzione che tale norma << contempli soltanto manifestazioni di un pensiero puro e astratto, quale può essere quello scientifico, didattico, artistico o religioso, che tende a far sorgere una conoscenza oppure a sollecitare un sentimento in altre persone.

[22] Il 21 maggio 1973 viene comunicato alla presidenza del Senato il disegno legge n. 1141, presentato dal ministro di grazia e giustizia Guido Gonella, recante << Modifiche al codice penale in materia di tutela del sentimento religioso >>. In questo progetto si estendono le fattispecie ex. art. 402 e 724 c.p. a tutti i culti, e le sanzioni ex. art. 403-405 c.p. non pongono differenze fra le varie confessioni religiose professate nello Stato.

[23] In Giur. cost., 1973, pag. 1617.

[24] In Giur. cost., 1975, pag. 1508.

[25] In Giur. cost.,1974, pag. 73.

[26] È proprio l’aspetto di novità a sollevare pesanti critiche in dottrina; F. Onida, Vilipendio della religione e libertà di manifestazione del pensiero, in Giur. cost., 1975, pagg. 3168-3169, nota come sia la sola libertà religiosa il bene tutelato dalla Costituzione, il quale potrebbe valere come limite di operatività per l’art. 21 Cost. Ciò non accade solo in quanto tale libertà non viene lesa dal comportamento vilipendioso ex. art. 403 c.p.: in questo caso l’interesse leso sarebbe solo << il prestigio della religione, sia pure realizzato attraverso la particolare modalità di un’offesa rivolta al credente o al ministro di culto in quanto tali >>; l’A. non omette di notare un profilo apprezzato in dottrina nei riguardi di questa sentenza: il fatto che la Consulta abbia voluta dare la sua interpretazione di cosa debba intendersi per vilipendio nella materia considerata, con la speranza che ciò possa impedire gravi repressioni dell’espressione di pensiero da parte della giurisprudenza.

L’invito operato con la quasi coeva sentenza in materia di bestemmia di revisionare la materia de qua, non viene ripetuto. Bisogna aspettare la sentenza 28 luglio 1989, n. 925 perché ciò accada. Per A. Albisetti, Vilipendio della religione e libertà di manifestazione del pensiero, in Dir. eccl., 1976, pag. 291, la motivazione di questo comportamento potrebbe risiedere nella diversità gravità della fattispecie.

[27] In Giur. cost., 1987, II, pag. 1081.

[28] In Dir. eccl., 1986, II, pag. 79.

[29] In Giur. cost., 1986, II, pag. 1288.

[30] In Dir. eccl., 1986, II, pag. 435.

[31] In Giur. cost., 1986, II, pag. 1585.

[32] Il Pretore di La Spezia si richiama all'art. 7; il Pretore di Roma all'art. 25, secondo comma, e, in subordine, all'art. 3; i Pretori di Trento e Monfalcone agli artt. 3, 7 e 8; il Pretore di Sestri Ponente agli artt. 2, 3, 8 e 19.

[33] A. Ravà, Corte costituzionale e religione di Stato, in Dir. e soc., 1998, pag. 589, critica questa conclusione, affermando che la Corte rileva nel Punto 1 del Protocollo Addizionale carattere costitutivo, e non meramente ricognitivo, accogliendo sotto tale profilo le istanze della dottrina più conservatrice.

[34] I nuovi rapporti fra Stato e Chiesa, e l’invito operato proprio con la sentenza n. 14 del 1973 furono elementi che indussero la dottrina a ritenere che con tale pronuncia la Corte avrebbe raggiunto un punto di svolta nel suo decennale percorso giurisprudenziale ma, come si è visto, così non è stato; P. G. Grasso, Laicismo di Stato e punizione del reato di bestemmia, in Giur. cost., 1988, I, pag. 4306, rileva la contraddizione di una Corte costituzionale che, se da una parte si mostra favorevole all’ introduzione << di nuove discipline, senza disparità nella punizione di offese al sentimento religioso degli individui, seguono decisioni nel senso di mantenere in vigore le vecchie disposizioni del codice penale, informate alla posizione unica e preminente della religione tradizionale >>.

[35] In Cass. pen., 1987, pag. 1709.

[36] In Dir. eccl., 1981, II, pag. 631.

[37] In Cass. pen., 1989, I, pag. 2146.

[38] In Quad. dir. pol. eccl., 1989, I, pag. 647.

[39] La Pretura in ogni caso accoglie la comune definizione di vilipendio come << ogni manifestazione pubblica di disprezzo, o anche semplicemente di scherno, nei confronti dell’oggetto di tutela penale, a prescindere o meno dalla volgarità delle espressioni, dei gesti, dei disegni utilizzati per manifestarla >>.

[40] Per la quale il vilipendio comprende << ogni manifestazione pubblica di disprezzo o anche semplicemente di scherno nei confronti dell’oggetto della tutela penale, a prescindere dalla volgarità o meno delle espressioni, dei gesti o dei disegni utilizzati per manifestarla, rimanendone così esclusa soltanto la critica e la censura esposte in termini corretti >>.

[41] In Quad. dir. pol. eccl., 1995, III, pag. 1045.

[42] Con questa sentenza la dottrina ritiene che la Consulta porti a compimento la sua conversione del bene giuridico protetto dall’art. 724 c.p., operata con la sentenza n. 79 del 1958. Al tempo stesso vengono sottolineati i pericoli di siffatta operazione, soprattutto in relazione al principio di stretta legalità in materia penale. G. Marini, Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Enc. dir., vol. XXVIII, Milano, 1978, pagg. 950-961, precisa come il principio di legalità esclude che la Corte possa operare << ampliamenti o restrizioni della sfera del penalmente rilevante >>; una semplice attività di interpretazione non può spingersi fino a modificare l’originario bene tutelato da una norma: si otterrebbe una << non legittima riformulazione della norma originaria >>.

M. Nunziata, Deve intendersi come riferita a tutte le religioni l’incriminazione della bestemmia contro la Divinità, in Nuovo dir., 1996, pagg. 156-157, mostra di apprezzare l’operazione ermeneutica della Corte; l’A. riconosce una << precisa linea di svolgimento >>, animata dalla volontà di adeguarsi alla << rinnovata oggettività giuridica >>.

[43] A.G. Chizzoniti, Considerazioni sulla contravvenzione di bestemmia, in Quad. dir. pol. eccl., 1988, pagg. 166-167, prova a sviluppare un discorso sul medesimo piano interpretativo. Per l’A. << i termini Divinità, Simboli e Persone, sono legati dall’aggettivazione “Religione dello Stato >>. Se tale entità fosse stata riferita alla sole Persone si sarebbe utilizzato il participio passato del verbo venerare al femminile ( persone venerate ).

[44] La dottrina è unanime nel sostenere che, sebbene la Corte sia mossa dal desiderio di non pronunciare una sentenza manipolativa in materia penale, le conclusioni a cui arriva sono proprio di questo genere. Per F. Ramacci, La bestemmia contro la divinità, una contravvenzione delittuosa?, in Giur. cost., 1995, pagg. 3486-3487, le conseguenze dell’interpretazione operata dalla Consulta sono ravvisabili in una illegittima estensione dell’area di punibilità non giustificata da nessuna norma di legge, punendo in tal modo << una serie di fatti in precedenza tenuti fuori dalla previsione della norma incriminatrice >>.

Non saremmo in presenza di una mera sentenza demolitoria, proprio perché si estenderebbe la punibilità della bestemmia, in origine prevista solo a tutela della religione cattolica, anche a culti diversi; il che è inaccettabile alla luce del dettato costituzionale che espressamente riconosce una particolare riserva di legge in materia di reati e pene.

[45] Critica sul punto la dottrina, che rileva come in realtà la decisione della Corte solleva un problema di coordinamento e di uguaglianza nei riguardi della normativa a tutela del sentimento religioso, dove si punisce solo il vilipendio alla religione cattolica, e sono previste sanzioni di minore entità qualora i fatti delittuosi siano diretti contro i culti ammessi.

[46] In Quad. dir. pol. eccl., 1996, III, pag. 1023

[47] In Dir. eccl., 1998, III, 3.

[48] G. Casuscelli, La Consulta e la tutela penale del sentimento religioso: “ buoni motivi” e “cattive azioni”, in Quad. dir. pol. eccl., 1998/3, pag. 1000, ritiene che una declatoria di incostituzionalità totale sarebbe stata più opportuna. Ciò che trattiene la Corte dal pronunciarsi in tal senso sarebbe la preoccupazione di salvare quanto più possibile la normativa de qua; per l’A., da questa sentenza sembra emergere un principio che, nelle intenzioni della Corte, dovrebbe vincolare il legislatore futuro: una sorta di << doverosità della tutela penale del sentimento religioso a regime sanzionatorio mite >>.

[49] Per M. Canonico, Tutela penali delle religioni e discriminazioni: la fine di un’era?, in Dir. fam.,1998, pag. 873, la Consulta giunge a conclusioni che sono del tutto consequenziale con quanto stabilito nella precedente sentenza n. 440 del 1995, che sebbene riferita all’incriminazione della bestemmia, non possono non valere anche in materia di vilipendio. L’A. contesta anche la precisazione terminologica svolta dalla Consulta, che viene ritenuta << laconica e del tutto immotivata >>, che << richiede nel lettore un atto di fiducia, se non di fede, piuttosto che uno sforzo ermeneutico >>.

[50] Le conclusioni della Corte sotto il profilo terminologico, non sembrano essere state accolte e apprezzate dal legislatore. Sembra curioso la scelta operata dalla Commissione di studio per la riforma del codice Rocco, prevista con decreto 23 novembre 2001, di prevedere nel << Progetto di modifica dei reati di vilipendio >> la dicitura << culti ammessi >>. Il Progetto può essere letto in Olir, all’indirizzo Internet http://www.olir.it/ricerca/index.php?Forn_Document=2385.

[51]G. Fiandaca, Altro passo avanti della Consulta nella rabberciatura dei reati contro la religione, in Foro it., 1998, I, pagg. 28, riassume una delle più frequenti critiche che vengono sollevate da parte della dottrina nei confronti della presente sentenza ( così come spesso accade per le sentenze in materia ), vale a dire il fatto che, sebbene si sia operata l’eliminazione di una parte della normativa, ciò che risulta è un quid del tutto diverso dal precedente. Saremmo in presenza di una << pronuncia di accoglimento parziale, resa nella forma di una sentenza manipolativa c.d sostitutiva >>. Verrebbero lesi principi cardine del nostro ordinamento giuridico quali il principio di riserva di legge, il divieto di analogia e quello << dell’intimo nesso di collegamento tra precetto e sanzione >>, in quanto verrebbe una diversa sanzione da un’altra fattispecie normativa. M. Canonico, Tutela penali delle religioni e discriminazioni: la fine di un’era?, in Dir. fam.,1998, pag. 876, sottolinea le difficoltà applicative della norma  conseguenti al fatto che sarebbe oscura la misura sanzionatorio concreta, << posto che viene a mancare proprio quella pena base sulla quale si dovrebbe calcolare la diminuzione prevista dall’art. 406 c.p. >>.

[52] In Dir. fam., 2001, pag. 489.

[53] In Giust. pen., 1998, II, pag. 199.

[54] Sentenze nn. 203 del 1989 e 149 del 1995.

[55] Parte della dottrina ritiene che la Corte non sia riuscita a cogliere a pieno le conseguenza che tale principio dovrebbe avere nella materia de qua. Per F. Albo, Il principio supremo di laicità dello Stato nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di “reati di religione”, in Giur. it., 2001, pag. 2231, se la Corte opera un giusto ragionamento quando riconosce non più non giustificabili norme penali che prevedano una disparità di trattamento nella tutela penale del sentimento religioso, ritiene non condivisibile il fatto che si vada a riconoscere una sorta di << intangibilità di questa stessa tutela, una volta eliminate le discriminazioni >>.

[56] Per P. Capanna, La caducazione del delitto di vilipendio della religione di Stato, in Giur. cost., 2000, pag. 3990, se la Corte finalmente recepisce le istanze della dottrina e della giurisprudenza, allo stesso tempo crea un << vuoto di tutela per l’offesa di un bene costituzionalmente garantito e tutelato: la libertà religiosa che trova nel rispetto per le religioni il suo fondamento logico e primario >>.

[57] La Corte, come già in precedenza certe sue sentenze in materia di bestemmia, rimprovera il legislatore per la sua inerzia legislativa in materia. Per la dottrina, però, maggior sarebbero le colpe della stessa Consulta. M. Canonico, Vilipendio della religione cattolica ed illegittimità costituzionale, in Dir. fam., 2001, pag. 511, se il legislatore si è limitato a non prestare interesse per i vari problemi che la normativa a tutela del sentimento religioso hanno posto dopo l’emanazione della Costituzione, la Consulta si è sottratta a precisi << doveri istituzionali , evitando di trarre le conseguenze che la riconosciuta disparità imponeva, ossia quella declatoria d’incostituzionalità delle norme importanti situazioni di privilegio >>.

[58] In Giust. pen., 2000, II, pag. 230.

[59] In Dir. eccl., 2002, II, pag. 179.