UNIVERSITA' CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI MILANO - Facoltà di Giurisprudenza - Corso di Laurea in Giurisprudenza
Capitolo I. Dal Codice Zanardelli al Codice Rocco.
I.I. LA DISCIPLINA DEL CODICE ZANARDELLI.
Il codice Zanardelli venne promulgato con il r.d. 30 giugno 1889, ed entrò in vigore il primo gennaio 1890. Le norme con cui il codice tutela il fenomeno religioso sono gli articoli 140 e seguenti, compresi nel Libro II, Titolo II << Dei delitti contro la libertà >>, Capo II << Dei delitti contro la libertà dei culti >>. I tratti salienti di questa normativa si possono riconoscere nella volontà di tutelare la libertà religiosa, come manifestazione del diritto di libertà civile, escludendo attenzione specifica alla Religione in sé e per sé, e stabilendo pene uguali senza distinzioni di culto. Il reato di vilipendio di un culto non è previsto, in base alla considerazione che non vi può essere offesa alla Religione se, contemporaneamente, non si lede un diritto individuale. Si avverte il rischio che, prevedendo una tale fattispecie di reato, si possa offendere la libertà di discussione in materia religiosa riconosciuta dall’art. 2 della legge delle Guarentigie. La relazione della Commissione della Camera si esprime in questi termini: << Il Capo II contempla i reati contro la libertà dei culti. E coerentemente ai criteri generali sovra enunciati, colle sue disposizioni mira non a proteggere una od altra religione determinata, e a sottrarre alla libera discussione e alla critica le dottrine che ne siano oggetto, ma si limita a riconoscere la legittimità e la intangibilità della manifestazione del sentimento religioso e della celebrazione delle credenze, che da quello emanano, in tutte le forme e i culti, che lo Stato per i suoi fini etici e, cioè a difesa della morale pubblica, non abbia proscritto>> [1]. Occorre evidenziare che l’oggetto della tutela penale è la libertà religiosa, non la religione. È una diretta conseguenza del rapporto che un moderno Stato liberale vuole assumere nei confronti del fenomeno religioso: la sua indipendenza verso la religione e la sua ferma volontà a non riconoscere nessuna confessione come << religione di Stato >>. La libertà religiosa si compone della libertà di coscienza e della libertà di culto [2]. Il codice Zanardelli, affiancato dalla legge delle Guarentigie [3], si preoccupa di stabilire quale debba essere il giusto equilibrio fra la manifestazione del proprio pensiero in materia religiosa, e un comportamento lesivo delle libertà religiosa.
Il codice accorda tutela ai culti in generale, ma si ritiene che non occorra da parte dello Stato un esplicito atto di ammissione; l’unica condizione è che il tal culto non sia stato proscritto dal legislatore a tutela dello Stato stesso e del buon costume. Il codice, infatti, non mira tanto << a proteggere una o altra religione determinata, o a sottrarre alla libera discussione e alla critica le dottrine che ne siano oggetto >> [4], ma si limita << a riconoscere la legittimità e la intangibilità della manifestazione del sentimento religioso e delle celebrazione delle credenze, che da quello emanano, in tutte le forme e i culti, che lo Stato È poi rimesso alla giurisprudenza stabilire se nel caso concreto sussista o meno la qualifica di << culto ammesso >>, alla luce dei principi di non contraddittorietà all’ordine pubblico e al buon costume. Molto spesso, però, la giurisprudenza non rispettò questi criteri e ne assunse di propri dando alla luce pronunce contraddittorie. Basti citare il caso dell’ << Esercito della salvezza >>, cui si vide riconosciuto lo status di culto ammesso [5], solo per vederselo disconosciuto pochi anni dopo [6]con l’argomentazione che il codice con l’espressione << culti ammessi >> si sarebbe riferito alle sole religioni che si fossero esplicate in vere e proprie cerimonie e funzioni e con alla base << una tradizione storica ed etica ed un generale riconoscimento nel paese>>. La dottrina si dimostra unanime nel criticare una tale impostazione in quanto si traduce in un limite insormontabile per il riconoscimento come << ammessi >> di nuove religioni che, in quanto tali, non potrebbero mai soddisfare i predetti requisiti ( tradizione storica, etica e generale riconoscimento ). Il fatto che nella locuzione << culti ammessi >> rientri anche la religione cattolica, esprime una delle principali differenze fra il Codice del 1889 e il Codice Rocco, in quanto è una chiara manifestazione della volontà del legislatore dell’epoca di non dar vita a discriminazioni di tutela penale fra i vari culti: si tutelano i culti, cattolici e acattolici, qualora esistano di fatto e non si pongano in contrasto con l’ordine pubblico. La tutela penale investe gli atti di culto (art. 140), le persone (artt. 141, 142) e le cose del culto (artt. 142, 143).
L’art. 140 così recita: << Chiunque, per offendere uno dei culti ammessi nello Stato, impedisce o turba l’esercizio di funzioni o cerimonie religiose, è punito con la detenzione sino a tre mesi e con la multa da lire cinquanta a lire cinquecento. Se il fatto sia accompagnato da violenza, minaccia o contumelia, il colpevole e punito con la detenzione da tre a trenta mesi e con la multa da lire cento a millecinquecento >>. Il codice disciplina la c.d. << turbatio sacrorum >>: il comportamento di colui il quale impedisca o turbi l’esercizio di una funzione o cerimonia religiosa, per offendere uno dei culti ammessi nello Stato. La condotta si articola nelle due ipotesi del turbamento e dell’impedimento di funzioni religiose. Per il Lombardi si ha impedimento << quando l’agente si oppone a che la funzione o cerimonia si eseguisca o la fa cessare quando è incominciata >> [7] e turbamento quando il soggetto << fa sì che la funzione o cerimonia resti interrotta o sospesa per un maggior o minor tempo >> [8]. Per il Tuozzi la differenza fra impedire e turbare s’incentra sul fatto che solo nel secondo caso l’azione si esplica nel corso della funzione, << senza che però il primo debba significare che propriamente la funzione non si sia più fatta >>[9]. La condotta deve tradursi in un attacco al libero esercizio del diritto di culto, quindi non si accorda tutela penale alle cerimonie della religione in quanto tali, come invece farà il Codice Rocco con l’art. 402. La giurisprudenza ritenne che si dovesse operare una valutazione alla luce della disciplina dei singoli enti, per stabilire se si fosse effettivamente interrotta una cerimonia religiosa. I giudici di merito stabilirono che qualora non fossero state emanate norme di diritto civile per regolare specifiche materie ecclesiastiche il diritto canonico doveva continuare ad essere applicato. La dottrina si divide in relazione alla questione se, per integrare la fattispecie criminale, fosse necessario o meno la presenza di un ministro del culto cattolico. Per il Lombardi ciò è << una circostanza estrinseca, la cui mancanza niente toglie alla essenza della funzione religiosa; perocchè anche senza tale intervento si compie sempre un atto di libero esercizio d’un culto che vuolsi garantire dalla legge >> [10].
L’art. 141 prevede che : << Chiunque, per offendere uno dei culti ammessi nello Stato, pubblicamente vilipende chi lo professa, è punito, a querela di parte, con la detenzione sino ad un anno e con la multa da lire cento a lire tremila >>. Per avere un comportamento sussumibile sotto la previsione normativa è richiesta l’intenzione di offende un credo religioso, che ciò si verifichi mediante vilipendio diretto ad una persona determinata, la pubblicità del fatto e la querela di parte. Consoli [11] critica la scelta del legislatore di prevedere come condizione di punibilità la querela di parte, in quanto il bene offeso da tale reato sarebbe l’intero complesso di credenza da cui il singolo attinge da una religione. La querela, coerente con tutta l’impostazione generale del codice Zanardelli che lo porta ad escludere i delitti in materia di religione, è in tal fattispecie richiesta perché solo il singolo individuo può avvertire l’esigenza di applicare la normativa penale a tutela di un suo proprio interesse. La tesi di Consoli non è generalmente accolta dalla dottrina sulla base del fatto che ciò a cui si vuole dare tutela è la facoltà di professare la propria fede: si vuole evitare che il singolo venga vilipeso nell’esercizio della sua religione. Il dolo specifico è richiesto perché il comportamento vilipendioso è diretto verso una persona che << assume un determinato atteggiamento nei riguardi del culto, in quanto cioè lo professa >> [12]. Il relatore Lucchini nei verbali della Commissione parlamentare dichiara che si era usata tale espressione per << escludere la voce oltraggio >>, [13] che è << relativa alle offese contro i pubblici ufficiali >> [14]. Nell’oltraggio la condotta s’indirizza verso un pubblico ufficiale, mentre nel vilipendio è diretta verso il singolo soggetto qualificato dalla sua condotta di professare un certo credo religioso. E’ opinione comune che la condotta vilipendiosa debba porsi in un rapporto che si può definire di << sprezzo >> con il bene tutelato dalla norma. Il termine vilipendio evoca l’idea di scherno, di tenere a vile il bene protetto. Al fine di operare una distinzione fra il vilipendio e i reati contro e l’oltraggio la dottrina dominante crea la c.d. teoria quantitativa. Si parla di offesa lieve, da cui si può avere ingiuria, diffamazione e oltraggio, e di offesa grave, che condurrebbe al vilipendio. In questo caso si riconosce un attacco più rilevante all’onore di una persona e al suo decoro, alla luce del quale non può parlarsi di vilipendio in presenza di una critica severa o un linguaggio poco rispettoso. Altra autori [15] sottolineano il profilo finalistico della condotta vilipendiosa, di gettare discredito sull’oggetto di tutela penale, per cui non si può avere illecito se non si riconosca lo specifico intento di denigrare tale bene. Il limite di questa impostazione è che il codice Zanardelli prevede ipotesi di vilipendio ( es: di tombe, di cadavere ) dove il fine perseguito dall’agente è del tutto estraneo, e se ciò vale per alcune fattispecie di reato non può dirsi elemento caratteristico di tale illecito.
Le norme del Capo II proseguono con l’art. 142 c.p., il quale recita che : << chiunque, per disprezzo di uno dei culti ammessi nello Stato, distrugge, guasta, o in altro modo vilipende in luogo pubblico cose destinate al culto ovvero usa violenza contro un ministro del culto e lo vilipende è punito con la detenzione da tre a trenta mesi e con la multa da cinquanta a millecinquecento. Qualora si tratti di altro delitto commesso contro il ministro di un culto nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, la pena prestabilita per tale delitto è aumentata di un sesto >>. La legge non richiede il dolo specifico, ma la corte di Cassazione si espresse diversamente, ritenendo non applicabile l’art. 142 << al fatto di chi reagendo alle violenze usate al parroco per costringerlo a inginocchiarsi durante la messa, lo schiaffeggi senza alcuna intenzione di offendere il culto o la funzione religiosa >> [16]. Per << cose destinate al culto >> è da intendersi << solo gli oggetti destinati esclusivamente al culto, anche se non consacrati secondo i riti religiosi >>[17]. Escludere la consacrazione è necessario per non dare tutela al fenomeno religioso in quanto tale e per non allontanarsi dall’unico oggetto giuridico in questione: la facoltà di esplicare la facoltà di culto. La stessa corrente dottrinale che non esclude che il Codice Zanardelli accordi tutela alla sola libertà religiosa del singolo interpreta la disposizione dell’art. 142 come << più diretta alla protezione del culto, che non alla tutela della libertà religiosa >> [18]. Secondo questi autori non si capirebbe come il vilipendio di cose destinate al culto possa colpire la libertà religiosa dei fedeli: ciò potrebbe accadere se dal vilipendio o dal guasto derivasse l’impossibilità di compiere le funzioni religiose: ma in tal caso il fatto sarebbe sussumibili sotto la previsione dell’art. 141. La miglior dottrina, muovendosi in un’ottica che cerca di porre una linea di demarcazione fra oggetto di tutela e scopo della norma penale, non accetta che l’oggetto dell’art. 142 possa identificarsi in questi termini:ciò che la norma tutela sono le cose desinate al culto e il ministro del culto in quanto elementi necessari per l’esercizio libero della religione, ma tutto questo risulta estraneo allo scopo, di natura politico-giuridica, che sottende questa, come ogni altra, norma penale del codice Zanardelli in materia di tutela del fenomeno religioso. Per ministro di culto è da intendersi soltanto colui che, secondo le norme, e le discipline del culto, a cui appartiene, è investito legittimamente dell’autorità di esercitare, in via principale od anche sussidiaria, quei riti o quelle cerimonie, con i quali si estrica il culto stesso. Secondo la Cassazione << tanto nell’ipotesi della prima parte, quanto in quella dell’art.142 c.p. occorre che il fatto sia commesso nell’esercizio o per causa delle funzioni del ministro del culto. Le due ipotesi si distinguono per la materialità del fatto, poiché la prima parte è applicabile per la violenza e il vilipendio, e il cpv. per i fatti di qualsiasi gravità costituenti delitto, ma non qualificabili come violenza o vilipendio>> [19]. Per esercizio della funzione sacerdotale si deve intendere << ogni e qualunque adempimento che costituiscono il compito e il ministero del sacerdote per l’osservanza del culto religioso >> [20]; mentre luogo pubblico << è quello in cui qualsiasi persona può accedere o per il quale può transitare senza limitazioni di sorta >> [21]. I. II. LA DISCIPLINA DEL CODICE ROCCO.
Il codice Rocco del 1930, presenta numerosi elementi di novità rispetto alla precedente legislazione in materia di tutela del fenomeno religioso, concependo quella che sarà la previsione legislativa più contestata dalla dottrina successiva all’emanazione della Costituzione, cioè il vilipendio alla religione dello Stato. Non è un caso che tale delitto venga inserito fra i delitti contro beni superindividuali, quali fede pubblica, amministrazione della giustizia. Il senso di questa novità è immediatamente percepibile: la religione viene tutelata in quanto rappresenta un bene in sé, un sistema di valori cui lo Stato fascista aderisce e rispetto al quale organizza una adeguata protezione. Al posto dell'individuo si pone questa volta lo Stato in una delle sue diverse estrinsecazioni. Inizia, trovando la sua massima espressione, quel principio di astrazione del bene giuridico tutelato che contraddistingue in genere tutti i regimi totalitari, senza che possa assumere rilievo l’ideologia a cui sostengano di appartenere. Il diritto penale smette di avere una funzione di selezione di comportamenti e finisce per diventare uno strumento di repressione pura al servizio del regime di turno. Con l’avvento del Fascismo lo Stato cerca di attenuare i contrasti con la Chiesa Cattolica, bensì valorizzando una politica diretta a rendere meno drammatici i rapporti fra questi due Enti che, dopo i tragici fatti successivi alla breccia di Porta Pia,sembravano del tutto compromessi. L’agnosticismo in materia religiosa assunto a valore di un moderno Stato liberale perdere del tutto la sua attrattiva per cedere il passo ad una visione di uno Stato che esalta il valore della comunità popolare, avvicinandosi alle aspirazioni delle classi sociali fra i quali si trova la religione. Il sentimento religioso diventa un qualche cosa verso cui lo Stato non può permettersi di assumere un comportamento di indifferenza, pur cercando di mantenere una netta distinzione fra le finalità e le attribuzioni proprie e quelle della Chiesa. L’espressioni << Religione dello Stato >>,dopo molti anni in cui sembrava essere stata dimenticata, torna a comparire nel panorama normativo dell’epoca con il R.D. Legge 15 luglio 1923 n. 3288, convertito nella Legge 31 dicembre 1925 n. 2309. Tale decreto disciplina la vigilanza dei giornali e delle pubblicazioni periodiche istituendo la << diffida >> di polizia, attuabile con decreto del Prefetto udito il parere di una speciale commissione ( in cui figura anche un rappresentate della classe giornalistica nominato dalla locale associazione della stampa o, in mancanza, dal presidente del tribunale locale), nel caso in cui la pubblicazione periodica o il giornale vilipenda la religione dello Stato, ex art. 2 con articoli, note, titoli, o vignette. I primi approcci per giungere ad una soluzione della questione romana si ebbero solo nel 1926, ma questo Decreto segna la già netta intenzione da parte del legislatore di accordare tutela, seppur solo in via amministrativa, alla religione stessa, sanzionando comportamenti riconoscibili come vilipendiosi per la sola religione cattolica. Il Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza costituisce un altro valido esempio di come il legislatore seppe anticipare, seppur in modo parziale, le scelte canonizzate poi nel Codice del 1930. il Regio Decreto 6 novembre 1926, ex art. 232, nelle disposizioni finali e transitorie prevede l’inflazione di un’ammenda per il turpiloquio, la bestemmia e le offese pubbliche ai culti ammessi nello Stato , statuendo una pena più grave qualora l’offesa fosse stata diretta al culto cattolico. Nel codice penale vigente i reati in materia religiosa sono contemplati nel quarto titolo del secondo libro, dedicato ai << delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti >>. Il capo primo di tale titolo stabilisce le pene per i << delitti contro la Religione dello Stato e i culti ammessi >>. Le specifiche caratteristiche del Codice Rocco in tale contesto possono riconoscersi nell’aver strutturato i reati in maniera differente a seconda che l’azione delittuosa fosse stata rivolta verso la religione cattolica o contro un culto ammesso dallo Stato, nell’aver previsto il vilipendio della religione dello Stato, ed in una più ferma difesa del fenomeno religioso, e la previsione di pene più gravi a tutela della religione cattolica in quanto riconosciuta << Religione dello Stato >>. Dalla Relazione ministeriale, dalla Relazione della Commissione consultiva e dai pareri della Magistratura, degli Ordini professionali e delle Università si hanno consensi unanimi alla impostazione data dal codice Rocco nei confronti del fenomeno religioso. Solo la Commissione Reale degli Avvocatie Procuratori di Roma e l’Università di Modena manifestano dissensi verso il modo in cui il nuovo codice sembra concepire la tutela penale del fenomeno religioso:fonte di critiche e resistenze è proprio l’intenzione del legislatore di introdurre discriminazione fra la religione cattolica e gli altri culti. Secondo l’Università di Modena non pare congruo << difendere le persone dei culti ammessi e le cose destinate all’esercizio di tali culti… senza tutelare ciò che è più importante, cioè le credenze fondamentali a cui tali culti s’informano >>[22]. A tal riguardo basti penare alla reazione del Comitato del Consorzio delle Università israelitiche italiane, che trasmette un ordine del giorno alla Commissione Ministeriale in cui esprime il suo rammarico per il fatto che le pene vengano aumentate qualora il reato si diriga verso il culto cattolico e che solo la religione cattolica venga tutelata contro il reato di vilipendio. Il Comitato ritiene opportuno << assicurare la uguale e piena protezione penale della libertà di religione e di culto per i seguaci di tutti i culti ammessi nello stato >> [23]. Tali questioni non vengono esaminate dalla Commissione che, sottolineandone l’aspetto strettamente politico, ritiene opportuno attendere la decisione ministeriale. In questa sede si reputa eccessivo estendere anche ai culti ammessi dallo Stato la previsione di un reato di vilipendio, in quanto contrastante con l’impostazione di principio, sorta in seguito agli Accordi dell’undici febbraio 1929, che vedeva nelle religione cattolica una religione che dovesse godere di un trattamento giuridico di maggior favore rispetto alle altre religioni, senza per questo ledere il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Rimane solo da aggiungere come la situazione dei culti ammessi non migliora dopo la redazione del codice definitivo, infatti se la prima redazione del progetto prevede un aumento di pena nell’ipotesi di reati commessi contro la religione cattolica, il testo definitivo disciplina solo una diminuzione della medesima qualora il comportamento delittuoso sia diretto contro persone o cose relative a culti ammessi. Nei lavori preparatori non può dirsi che venga dimenticata l’importanza che la religione assume per il singolo individuo, in quanto si afferma che << lo Stato riconosce quale realtà viva ed operante il sentimento religioso e consapevole della sua importanza come fattore morale per l’individuo e per l’aggregato sociale lo protegge >> [24], ma la ratio di fondo che spinge il legislatore a tutelare penalmente il sentimento religioso risiede nell’importanza ormai riconosciuta alla Religione come fenomeno sociale che lo Stato fascista non può fingere di ignorare perché essa ha un contenuto etico che trascende i limiti del patrimonio morale individuale, per assurgere ad interesse generale, ed è appunto in questo carattere di interesse di interesse generale e sociale che trova la sua giustificazione l’intervento dello Stato diretto alla tutela penale della Religione. La religione è riconosciuta come forza aggregante dell’intera società, la cui esistenza si pone come fattore determinante per la convivenza sociale; la religione è un valore per lo Stato e viene i comportamenti delittuosi previsti dagli artt. 402 e seguenti sono lesivi innanzitutto di interessi dello Stato, si pongono in contrasto diretto con lo Stato. Per tal motivo che i reati previsti dal nuovo codice sono identificati idealmente come delitti << contro la società >>: oggetto specifico di tutela era un interesse giuridico collettivo. Se per lo Stato la Religione è un << valore >>, si può ben capire l’importanza che la religione Cattolica assume ai suoi occhi e i motivi di una tutela più pregnante rispetto a tutti gli altri culti. Sebbene dalla Relazione Ministeriale sembri desumersi che un tale privilegio derivi dall’aver recepito il contenuto dell’art. 1 dello Statuto Albertino, per il quale << la religione cattolica apostolica è la sola religione dello Stato>>, la dottrina sembra giustificare il comportamento del legislatore in un ottica pre-giuridica. Lo Stato considera la religione un bene proprio, e riconosce alle varie religioni valori differenti in base alla loro diffusione nell’aggregato sociale; il valore più alto non può che essere attribuito al culto Cattolico in quanto espressione del sentimento religioso della maggior parte degli italiani, in quanto religione della professata da gran parte del popolo italiano; le viene riconosciuto un forza educativa e di unione del popolo italiano non riscontrabile in culti diversi. Tali ragioni illuminano il motivo per cui è punito il solo vilipendio diretto alla religione Cattolica: non si ritenne opportuno estendere la previsione normativa contenuta nell’art.402 anche a culti con una scarsa diffusione fra la popolazione. Ma anche sotto questo specifico aspetto si possono riconoscere delle differenze fra i motivi che spinsero a parlare di vilipendio solo nei confronti della religione Cattolica. Dalla lettura della Relazione Ministeriale sembra essere ancora una volta determinante il ruolo dello Statuto Albertino, mentre la dottrina ne fa una questione qualitativa e sostanziale. Lo Stato Fascista, si dice, non è uno Stato confessionale, bensì etico. Uno Stato che da forza ai valori insiti nella società, che riconosce certi fini economici, estetici, sociali e religiosi e li fa propri. Fra tali valori c’era la Religione. Lo Stato non riconosce la religione Cattolica come portatrice di una Verità assoluta, ma la tutela per il significato che essa assume per lo Stato: concedendo ad essa una sfera di protezione tutelava sé stesso.
<< Chiunque pubblicamente vilipende la religione dello Stato è punito con la reclusione fino ad un anno >>.
L’oggetto del vilipendio e interesse tutelato.
Nei riguardi di quale sia l’oggetto specifico di tutela penale ex. art. 402, il Manzini propone una tesi che, sebbene all’origine incontrò i favori della dottrina e di parte della giurisprudenza, oggi risulta respinta. Secondo tale penalista oggetto di tutela penale ex. art. 402 << sarebbe il pubblico interesse di proteggere la religione cattolica, apostolica e romana, quale istituzione dello Stato, considerata in sé stessa, nelle sue credenze fondamentali, e indipendentemente dalle sue manifestazioni esteriori >> [25]. Si ritiene che tale impostazione non possa essere accettata in quanto l’interesse dello Stato non può mai essere specifico oggetto di tutela penale, perché esso costituisce sempre ratio della previsione legislativa. Si potrebbe anche ritenere corretto parlare di << interesse dello Stato >>, ma ciò non avrebbe nessun rilievo proprio perché tale << interesse >> sarebbe oggetto di tutela ex. art. 402 come di ogni altro articolo del codice penale.
Dottrina largamente dominante [26] è quella che sostiene come tutte le norme contenute nel Capo I tutelino la religione in sé e per sé, con la sola differenza che nell’art. 402 c.p. il vilipendio della religione cattolica sarebbe diretto ed immediato, a differenza di quanto accade ex. art 403 c.p. e seguenti, dove si dovrebbe parlare di vilipendio indiretto. Oggetto di tutela da parte dell’art. 402 c.p. è dato dal << contenuto ideale di principi, di dogmi, di credenze, di riti, di quanto cioè si sublima in una fede >> [27], mentre nei successivi articoli l’oggetto sarebbe << reale e concreto >> [28], inerente alle singole manifestazioni del culto. La dottrina ritiene che solo nell’art. 402 c.p. si possa riconoscere nella religione l’oggetto specifico di tutela. La ratio che sottende la previsione normativa degli altri articoli è sempre quella di accordare tutela alla religione, ma prevedendo come oggetti specifici di tutela altre entità, di volta in volta richiamate dagli articoli.Prima di capire cosa debba intendersi per religione in senso penale, pare opportuno precisare che la dottrina si è dovuta confrontare con un problema di carattere preliminare, inerente al rapporto sussistente fra gli artt. 403, 404 e 405 c.p. e l’art. 402 c.p. Solo una parte della dottrina ha cercato di dimostrare che il primo articolo del Capo I è generico rispetto agli articoli che lo seguono[29], ma è opinione comune che sostenere che l’art. 402 c.p. abbia carattere generico equivarrebbe a dire che il nostro ordinamento possa ammettere un articolo con un oggetto generico, il che non pare essere accettabile in quanto la tutela penale dev’essere precisa e netta se vuole tutelare un certo bene giuridico. La tutela contenuta nell’art. 402 c.p. non è generica, bensì diversa. L’oggetto previsto in tale articolo è solo più vasto e comprensivo, in quanto protegge un’entità astratta e ideale; si presta ad incriminare una più vasta categoria di azioni. Il Florian, partendo dal condiviso presupposto che sia la religione dello Stato ad essere tutelata dagli articoli del Capo I, non riconosce le disposizioni seguenti all’art. 402 c.p. come autonome da esso. L’Autore sostiene che << i delitti preveduti negli articoli 403 c.p. e 404 c.p. sono collegati insieme dal comune presupposto, che trattasi bensì di vilipendio su persone o cose, ma in realtà questo non vive di vita umana, bensì questo appare atteggiato e plasmato come istrumento, come modo e manifestazione di offesa alla religione dello Stato >> [30], ma ciò non pare accettabile dalla miglior dottrina che ritiene come ogni reato del capo I autonomo: se così non fosse, sarebbe stato più opportuno prevedere il solo articolo 402 c.p., in grado necessariamente di assorbire in sé le fattispecie previste dagli artt. 403 c.p. e 404 c.p.
Per capire quale possa essere il significato penalistico di << Religione >> pare corretto assumere quella del Siracusano, generalmente accolta in dottrina, il quale ritiene che con detto termine il legislatore abbia voluto riferirsi alla religione cattolica come << bene di civiltà, come patrimonio di dottrine e di dogmi >> [31]. La dottrina dominante sembra sviluppare tale impostazione basandosi sul fatto che la religione, pur essendo un qualche cosa di spirituale, dà origine a tutta una serie di credenze, riti ed organismi che ne rappresentano la manifestazione dinamica e concreta. Se si dovesse riconoscere la religione come mero vincolo fra Uomo e Dio, si dovrebbe accettare il fatto che tutta una serie di entità, qualora non fossero sussumibili sotto gli artt. 403 c.p. e seguenti, risulterebbero prive di tutela. Le << persone >> ex. art. 403 c.p. integrano l’elemento personale della religione, le << cose >> ex. art. 404 c.p., qualora soddisfino la qualificazione richiesta dal presente articolo, costituiscono un elemento del culto, ma quando venga leso un bene della religione cattolica diverso dalle entità sopra nominate si potrà dire di aver l’oggetto del reato di vilipendio. La dottrina dominante si muove nell’ottica di riconoscere tutta una serie di entità diverse dal concetto di Religione in senso stretto ma che, essendo intimamente legate a quest’ultima, una loro offesa non può che costituire vilipendio della religione dello Stato. Nel concetto di << religione >> rientrerebbe la stessa Chiesa cattolica, le istituzioni e i suoi organi, ma pure i Santi, la Divinità o l’insieme dei battezzati,se con tale termine si intende coloro i quali prendono parte a gli stessi Sacramenti e che danno corpo alla << societas fidelium >>. Per dare un senso a tutte queste entità, si dovrebbe far riferimento all’ordinamento canonico, mediante gli istituti del rinvio o della presupposizione, e non assumerli come semplice dato di fatto [32].
In relazione al rapporto sussistente fra le incriminazioni previste negli articoli 403 ss. e l’art 402. c.p. la dottrina e la giurisprudenza dominanti ritengono come in quest’ultimo articolo il vilipendio della religione dello Stato abbia << carattere generico >>. Una tale espressione, se non sufficientemente argomentata, può dare spazio a fraintendimenti, perché potrebbe insinuare che l’art. 402 c.p. abbia un oggetto generico, il che sarebbe inaccettabile. A tal fine è corretto parlare di diversità della tutela, e non di generalità. Essendo la religione il bene offeso dalle norme del Capo I, si dà rilievo ai casi in cui la religione venga offesa nelle persone che una tale religione professano o nelle cose che sono state consacrate al culto o che costituiscono oggetto di culto, o destinate necessariamente al culto. L’oggetto di reato secondo l’art. 402 c.p. è solo più vasto e comprensivo. Si avrà un comportamento sussumibile sotto tale articolo quando un’azione idonea a vilipendere la religione dello Stato non sarà diretta verso una di quelle entità a cui si riferiscono gli articoli seguenti. È una diretta conseguenza del fatto che l’art. 402 tutela un’entità astratta e non realtà materiali, dimostrandosi norma idonea a comprendere una più vasta categoria di azioni. L’ispirazione che sottende la previsione degli altri articoli del Capo I è la medesima, la tutela della religione, sebbene essi risultino assolutamente indipendenti dall’art. 402 c.p.. Non riconoscere che gli articoli del Capo I, accordando tutela ad entità diverse, si dimostrano indipendenti gli uni dagli altri, porterebbe a concludere che sarebbe stato più ragionevole prevedere la sola prima disposizione del Capo, che avrebbe assorbito le fattispecie previste dagli altri articoli.
Come già si è detto, la dottrina dominante ritiene che per dare corpo ai concetti che integrano l’idea di religione, così come nei vari casi che si presentano ex. art. 403 c.p. e ss., si debba far riferimento all’ordinamento canonico attraverso il meccanismo del rinvio o della presupposizione, ma altra parte della dottrina [33] respinge tale ragionamento operando una sorta di parallelismo fra ciò che accade negli articoli 403 e seguenti del codice e l’art. 402 c.p.. Prendendo l’art. 403 c.p. come esempio, si afferma che in tal caso il legislatore non abbia voluto riferirsi a nessuna fattispecie canonica perché, seppur prendendo in considerazione chi esercita il ministro di culto, prescinde da come tale status sia definito nel diritto canonico: non vi sarebbe inserzione di norma canonica nell’ordinamento dello Stato, né valore di fonte statuale alla fonte dell’ordinamento canonico. Saremmo in presenza di un’operazione per cui si richiamano norme canoniche per attribuire ad esse << effetti giuridici nell’ambito dell’ordinamento statuale >> [34], e ciò al solo scopo << di determinare un elemento della fattispecie penale, cioè un elemento in presenza del quale gli altri elementi concorrenti nella fattispecie assumono una diversa qualifica >> [35]. Tutti gli elementi degli articoli 403 c.p. e seguenti sarebbero assunti come elementi di puro fatto: un elemento della fattispecie statuale sarebbe affidato alle risultanze di valutazioni operate da norme estranee a quelle dello Stato. Non si potrebbe presentare un ricorso in Cassazione per falsa applicazione delle << valutazioni canoniche >>, in quanto norme di diritto: tali valutazioni rivelerebbero per il giudice come meri fatti, che dovrà solo accertare e non valutare. Un tale ragionamento si può applicare anche per l’art. 402 c.p.: le credenze i dogmi sarebbero assunti come elementi di puro fatto dalla figura delittuosa e le norme dell’ordinamento canonico potrebbero essere solo fonte di criteri interpretativi. Soggetto attivo.
Autore del vilipendio può essere chiunque, e quindi anche un appartenente alla confessione vilipesa, o un ministro di culto, della stessa religione verso la quale l’offesa è rivolta o di altra religione, senza che ciò comporti una variazione della responsabilità penale, ferma l’applicazione della circostanza aggravante soggettiva dell’art. 61 c.p. n.9 qualora si possa riconoscere l’abuso della funzione di ministro del culto.
Elemento oggettivo:il vilipendio.
Quando la normativa penale designa una condotta come vilipendiosa la considera come un presupposto materiale del giudizio, senza preoccuparsi di darne una precisa definizione. In dottrina e in giurisprudenza il vilipendio non è una figura dai confini ben definiti. Per il presente lavoro, definire cosa sia il vilipendio è funzionale per determinare quale comportamento possa integrare la fattispecie di reato. Una prima teoria sviluppata in dottrina [36], la c.d. teoria quantitativa, incontrò inizialmente notevole fortuna. Il vilipendio implicherebbe qualcosa di più grave rispetto all’ingiuria e all’oltraggio, vi sarebbe, come ulteriore elemento materiale, una intensità offensiva più forte, in quanto << il fatto di vilipendere è il mostrare di tenere a vile mediante ignominia o disprezzo o dileggio o contumelia, ovvero avvalendosi di grossolana e volgare ingiuria >> [37]. Un aumento progressivo della condotta offensiva determina il passaggio da quello che si può riconoscere come ingiuria al vilipendio. Il comportamento vilipendioso, in virtù della sua maggior intensità offensiva, qualora non sia punibile come fattispecie a sé stante, sarebbe punibile, a parità di condizione, come diffamazione o oltraggio; ma, se dovessero sussistere gli estremi per entrambe le fattispecie, si dovrebbe considerare il solo vilipendio, per effetto del principio di specialità [38].
Nel corso degli anni [39] si sono formate teorie successive, le quali ebbero come dato comune la constatazione che l’attuale codice prevede ipotesi delittuose ( come avveniva per il codice Zanardelli, ex. artt. 408 e 410 c.p. che punivano la profanazione di tombe e cadaveri ) dove non è possibile riconoscere una specifica esigenza di tutelare le singole opinioni: questo perché ai beni tutelati da vilipendio non corrisponde una identica libertà di critica. L’interpretazione della normativa vigente porta ad escludere che tale definizione di vilipendio sia adeguata per tutte le ipotesi previste. Il criterio della quantità non individua le note salienti del vilipendio rendendo difficile distinguerlo dalle altre figure delittuose. La teoria tradizionale non sembra reggere il confronto con quanto previsto dal legislatore in quanto se considera come vilipendio il fatto previsto dall’art. 410 c.p., nello stesso tempo ammette che l’intensità dell’azione sarebbe minima, e non massima, e quindi si dovrebbe parlare di ingiuria e non di vilipendio. Le correnti dottrinali che muovono critiche a questa impostazione sono accumulate dal fatto che incentrano l’attenzione sull’oggetto su cui cade la condotta, e non sui caratteri della condotta stessa [40]. Il Battaglia sottolinea come il legislatore si riferisca al vilipendio anche per indicare una semplice mancanza di rispetto, come nel vilipendio di cadavere, e da ciò ritiene che il profilo specifico di tale fattispecie criminosa debba essere cercato altrove. Nelle numerose ipotesi di vilipendio ( es: della religione , della bandiera nazionale, delle istituzioni costituzionali ) è possibile riconoscere un’entità offensiva minima, come nel vilipendio di cadavere ex. art. 410, e massima nel caso di vilipendio delle istituzioni costituzionali ex. art.290. Il dato comune non sarebbe << l’obbiettività materiale dell’azione delittuosa >>, bensì la natura del bene giuridico protetto. << il vilipendio riguarda sempre cose, o enti, o qualità personali, o simboli, che per la loro stessa natura, o per una convenzione della nostra civiltà giuridico-religiosa, noi poniamo al di là e al di sopra di ogni censura…: beni che circondiamo non solo di rispetto ma, addirittura di riverenza >> [41]. Parte della dottrina [42] critica questa impostazione adducendo il fatto che di riverenza il codice ne parli solo all’art. 626, n.7, non rispecchiando una vera impostazione di principio: non saremmo in presenza di una caratteristica innata dei beni tutelati nella fattispecie di vilipendio. Accettare il criterio della riverenza comporterebbe la necessità di applicare questo criterio anche ad altri beni, altrettanto meritevoli di tutela. Il diminuire della riverenza accordata a beni diversi avrà come conseguenza che l’elemento obbiettivo del vilipendio dovrà essere costituito da fatti di gravità sempre maggiore.
Il De Mattia [43] esclude che si possa riconoscere questa distinzione fra offesa maggiore e minore. L’autore ritiene più opportuno stabilire una differenza fra generica offesa e vilipendio, in modo che quest’ultimo offenderebbe un’entità ideale con lo scopo di screditare e denigrare, mentre l’ingiuria sarebbe diretta verso una persona con il semplice scopo di offendere. Le differenze fra vilipendio e ingiuria risiederebbero nel << modo >> e << nell’oggetto >>. Le critiche mosse verso questo autore sono di non aver saputo fornire elementi per differenziare nello specifico le due nozioni; inoltre, non assumerebbe nessuna giuridica rilevanza affermare che il << modo >> è diverso, essendo diretto a << ferire >>nell’ingiuria e << screditare >> e << denigrare >> nel vilipendio. Nel vigente codice non sono prese in considerazione due diverse azioni aventi le predette caratteristiche, idonee ad integrare le rispettive fattispecie delittuose, tanto che il ferire e il denigrare sembrano propri sia del vilipendio, come dell’ingiuria. Il De Mattia sembra intendere la locuzione << modo >> come se nei casi di vilipendio si potesse riconoscere una finalità intrinseca nell’azione di cui non vi è traccia nel codice Rocco. Si potrebbe al più parlare di << modalità d’esecuzione >> del reato, ma ciò sarebbe del tutto irrilevante,essendo il reato in questione, come sostiene la dottrina dominante, un reato a forma libera.
Il Mazzanti, ammette che in varie ipotesi delittuose si possa riconoscere applicazione del concetto di << riverenza >>, ma esclude questa caratteristica come nota comune. Se pare corretto riferirsi all’idea di riverenza per entità quali il sentimento religioso e la pietà dei defunti, nei confronti dell’ordine giudiziario o delle forze armate si dovrebbe parlare di << rispetto >>. La riverenza non sarebbe una caratteristica propria dei beni giuridici tutelati da vilipendio,ma una qualificazione soggettiva, il che non pare accettabile. Cerca anch’egli di fornire una definizione di vilipendio unitaria, riconoscibile in ogni previsione legislativa. Il primo requisito del vilipendio dovrebbe essere << un’azione idonea a tenere a vile, a disprezzare il bene attaccato >> [44]. Non sarebbe riconoscibile un’attività con un grado di entità maggiore rispetto a quanto accade per i comportamenti sussumibili nelle previsioni di ingiuria, ma solo un comportamento che, obbiettivamente considerato in rapportato all’evento, abbia la potenzialità di conseguire il risultato di << tenere a vile >>. L’evento non sarebbe più grave rispetto all’offesa arrecata all’onore di una persona, ma avrebbe natura diversa, perché scaturisce da azioni aventi diversa natura. Il secondo elemento proprio del vilipendio sarebbe la manifestazione di disprezzo verso entità ideali, cose che costituiscono simboli, che non possono recepire il disprezzo a loro rivolto. L’ingiuria si traduce in una lesione dei beni dell’onore o del decoro che è immediatamente e direttamente percepibile dal titolare dei medesimi. L’Autore riconosce che in casi di vilipendio l’offesa si manifesta con la persona presente, come nel caso previsto ex. art. 403, ma in tali ipotesi i ministri di culto e i credenti non sono soggetti diretti e mediati dell’azione delittuosa, perché l’oggetto principale della tutela penale è la religione di Stato, o comunque il culto ammesso >> [45], in modo che il vilipendio è solo << un mezzo attraverso cui l’agente offende un determinato culto >> [46]. Il Mazzanti esclude che il legislatore addotti il termine vilipendio nei casi in cui non vuole andare ad incidere sulla libertà di opinione o di critica, perché una critica che non supera i confini del lecito, non può mai tradursi in un comportamento giuridicamente rilevante. I casi di vilipendio presentano pene più severe rispetto ai casi di ingiuria, ma non sarebbe conseguenza della maggior o minor gravità dei reati, perché tale profilo è determinato da ragioni di politica criminale, da cui non possono scaturire differenze di quantità fra condotte diverse.
Gli autori che accettano che l’attenzione debba essere riferita all’oggetto della condotta delittuosa, afferma che tale è sempre un’entità ideale, come le istituzioni o la religione dello Stato [47].
La dottrina prevalente esclude la sussistenza del vilipendio indiretto, che sarebbe costituito dal fatto di porre a vile un’entità ideale, come effetto della critica operata da altre persone. Una critica motivata e che non integri l’ipotesi di vilipendio, può determinare nelle menti di chi ascolta un giudizio vilipendiosa. << Un singolo atto non può essere oggetto di vilipendio ma ben può essere la causa qualora se ne tragga lo spunto per investire con attribuzioni offensive >> [48] entità astratte, come la religione. Il vilipendio è puramente interno e non avrà rilevanza giuridica se non sarà pubblicamente comunicato
Parte della dottrina [49] sostiene che il vilipendio implichi << tenere a vile l’oggetto tutelato dalla norma e fare in modo che altri lo tenga a vile e lo disprezzi >> [50]. Altra dottrina [51] non accetta che dal vilipendio possano derivare tali conseguenze. Il vilipendio deve sussistere nella fattispecie incriminata, non essere una conseguenza che terze persone traggano dalla medesima; in tale ipotesi si parlerebbe di vilipendio indiretto, che di per sé non costituisce reato; oppure il fatto sarebbe sussunto negli artt. 302, 303 c.p. ( pubblica istigazione e apologia ) e 327 c.p.( eccitamento al disprezzo e vilipendio delle istituzioni ), che rappresenterebbero un limite invalicabile per la teoria precedente. La miglior dottrina esclude che si possa parlare di fattispecie omissiva nel reato di vilipendio. Una fattispecie omissiva, il cui nucleo sta nel non fare l’atto comandato, implica l’individuazione di una fonte del comando, ma in materia religiosa, bisognerebbe accettare la libertà religiosa come libertà di compiere il proprio dovere religioso per riconoscere la sussistenza di tali fattispecie nel nostro ordinamento, ma alla luce dei principi costituzionali in materia religiosa non pare sussistere una tale libertà. Di parere contrario il Gabrieli, il quale sostiene, come esempio, che << entrando in Chiesa durante la funzione religiosa, tenendo in testa il cappello… in segno dispregiativo, integri gli estremi di un comportamento vilipendiosa verso la religione >> [52], senza curarsi particolarmente del dettato costituzionale. La dottrina non accetta tali conclusioni perché questi comportamenti, per acquistare rilevanza penale, devono essere inseriti in una situazione costituita da altri atti ( per esempio delle parole ), che li rendano del tutto evidenti; non è il solo comportamento omissivo che viene elevato dal legislatore e fattispecie di reato, ma tutta una serie di fatti che danno rilevo ad un atto che in sé non avrebbe alcun rilievo penale.
Nel vilipendio è tutelato un bene immateriale, ciò a dato spazio a varie teorie per capire se si possa parlare di evento o meno. Se parte della dottrina [53] ritiene che nel vilipendio la lesione sarebbe in re ipsa in quanto l’accento cadrebbe sull’azione, rendendo così irrilevante la ricerca di un evento, altra dottrina [54] sottolinea come nella fattispecie ex. art. 402 non si fa cenno ad una conseguenza naturale della condotta: si avrebbe solo un reato di mera condotta. Il reato si perfezionerebbe con la semplice pronuncia delle parole ingiuriose. Basandosi sulla percezione delle parole e dei fatti ingiuriosi, sui sentimenti e rappresentazioni che la condotta vilipendiosa suscita, alcuni sostengono la presenza di un evento immateriale [55]. Difetto di tale impostazione, rileva la dottrina [56], è quello di non capire che qualora l’azione si svolge senza quelle componenti che integrino la fattispecie di reato ( e quindi secondo i fautori di questa dottrina contestata anche la percezione delle parole), non viene meno l’evento, ma l’azione penalisticamente rilevante: l’azione non sarebbe idonea, per cui, ad esempio, parole incomprensibili rendono inesistente lo stesso reato. Il Manzini ritiene che il vilipendio sarebbe << l’effetto di ogni espressione orale, mimica o grafica, di ogni atto e di ogni fatto che manifesti in qualsiasi modo dispregio verso il soggetto passivo, in contrasto con il rispetto che la legge gli vuole assicurato >> [57], ma è opinione comune che il vilipendio non sia la conseguenza dell’atto, bensì l’atto stesso. Tutto ciò che può essere successivo alla condotta risulta estraneo alla previsione normativa perché la norma non considera un nesso di casualità fra azione ed evento. Altra dottrina riconosce nel vilipendio un reato formale, ma di pericolo, perché non si ritiene essenziale che il danno morale si sia effettivamente verificato, scindendosi fra chi ritiene che il pericolo sussista dalla percezione della condotta vilipendiosa, e chi ritiene sufficiente il compimento dell’azione medesima [58]. Elemento soggettivo.
È bene precisare che il dolo si differenzia in dolo generico e specifico. Il primo si verifica quando per il legislatore è sufficiente che sia voluto il fatto descritto dalla norma, quello specifico quando è necessario che il soggetto agisca in vista di uno scopo fissato dalla legge, la cui realizzazione non trova necessario riscontro sul piano della fattispecie concreta. Una dottrina, un tempo dominante, sostiene che il vilipendio sia punibile solo a titolo di dolo specifico [59]. Per avere reato di vilipendio sarebbe richiesta la volontà cosciente di compiere il fatto, la consapevolezza di dirigerlo verso una delle entità protette, e lo specifico scopo di vilipendere tali entità: sarà compito dell’accusa provare tale scopo. Si riconosce primaria importanza ai motivi, che posso rilevare, come escludere la coscienza e volontà del comportamento vilipendiosa. Chiedendo come requisito il dolo specifico, questa costruzione dottrinale cercava di tutelare al meglio la libertà di discussione in materia di religione. È la stessa Relazione ministeriale al Progetto che, al fine di rendere meno incerta l’applicazione della normativa penale, ritiene sufficiente la semplice coscienza e volontà della condotta, ma per i fautori di questa corrente dottrinale ciò non si è dimostrato un limite insuperabile. Si nota come la stessa Relazione preveda che la bestemmia, qualora vi sia dolo, realizza vilipendio della religione cattolica, come ad indicare che il dolo specifico sia l’elemento psicologico che determini una delle differenze fra vilipendio e bestemmia. Nel reato ex. art. 402 c.p. l’agente sarebbe animato da una volontà cosciente e libera di porre in essere una certa condotta, con lo specifico scopo di vilipendere la religione dello Stato; mentre nel reato di bestemmia, l’autore pone in essere gli elementi materiali del vilipendio, senza essere animato dalla volontà di vilipendere la religione dello Stato. Richiedere il solo dolo specifico, determinerebbe sempre un comportamento sussumibili sotto la previsione dell’articolo 402 c.p., perché di solito la bestemmia arreca già di per sé offesa alla religione.
Altri autori sostengono il dolo in re ipsa [60], identificando volontà del comportamento e volontà del fatto. Sarebbe impedito un’indagine sull’elemento intenzionale perché il dolo rileverebbe dalla sola materialità del comportamento e si dovrebbe solo accertare la coscienza e volontà dell’azione. L’accusa sarebbe dispensata da ogni prova inerente all’elemento intenzionale, qualora si dovessero accertare fatti che di per sé abbiano un certo carattere vilipendiosa. Questa impostazione è rimasta largamente minoritaria in quanto non si dovrebbe confondere quella che è una praesumptio hominis, con una presunzione legale: il dolo è un elemento essenziale del reato, ed è corretto parlare di presunzioni legali solo in presenza di un chiaro dettato normativo, il che non accade in materia di vilipendio, non rientrante fra i reati per i quali è prevista una presunzione legale.
È opinione ormai condivisa in dottrina [61], e largamente accolta in giurisprudenza, come nel reato di vilipendio ex. art. 402 c.p. << non si ravvisi una volontà diretta ad uno scopo ulteriore al compimento previsto dalla fattispecie legale >> [62]. Ciò che rileva è una condotta offensiva, di dileggio, che assunta come tale dal suo autore, da contenuto all’offesa che costituisce il momento rilevante del reato. Dolo generico ( perché si ha coscienza dell’azione come dell’evento ),e nella forma del dolo eventuale, perché l’evento è accettato dall’agente come conseguenza della propria condotta. Da parte di altra dottrina [63] è sorta una corrente di pensiero che sottolinea come le impostazioni di chi parla di dolo generico e specifico non siano così lontane come si sarebbe indotti a credere. Il dolo specifico esprimerebbe la necessità dell’intenzione di offendere la religione cattolica e la tesi che richiede il dolo generico non esclude del tutto gli elementi psicologici del reato: il fatto delittuoso non può essere individuato solo sulla base del contegno materiale, ma costringe a cercare il significato dell’azione che riveli l’esistenza del dileggio nei riguardi dell’oggetto di tutela.
Pubblicità.
Il vilipendio della religione deve avvenire pubblicamente. Tale requisito si identifica con la nozione generale che di pubblicità fornisce il codice ex. art. 266. << Agli effetti della legge penale, il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso: 1.° con il mezzo della stampa o con altro mezzo di propaganda; 2.° in luogo pubblico o aperto al pubblico od insieme alla presenza di più persone; 3.° in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata >>. Il carattere non meramente individuale del bene protetto pare confermato dal fatto che il vilipendio puramente << privato >> è inidoneo a costituire fattispecie di reato, essendo privo di forza diffusiva. Opinione comunemente accolta in dottrina [64] vede nella pubblicità un elemento costitutivo di reato, mentre risulta nettamente minoritaria l’impostazione di chi sostiene che si tratti di una condizione obiettiva di punibilità [65].
Art. 403 c.p.
Offesa alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone.
<< Chiunque pubblicamente offende la religione dello Stato, mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la reclusione fino a due anni. Si applica la reclusione da uno a tre anni a chi offende la religione dello Stato, mediante vilipendio di un ministro del culto cattolico >>.
Interesse tutelato.
È opinione largamente accolta in dottrina come l’interesse tutelato dall’art. 403 c.p. sia il la religione nella sua dimensione sociale e che il legislatore con tale articolo abbia voluto accordare tutela ai dogmi, alle regole, ai simboli e alle cerimonie che caratterizzano la confessione religiosa. La perseguibilità d’ufficio e non a querela di parte, il rilievo dato ai soli fatti commessi pubblicamente ( qualora l’offesa sia commessa verso singoli fedeli ), la mancanza del requisito della pubblicità nel secondo comma ( stante la rilevanza della carica istituzionale rivestita ), l’aumento di pena previsto per quest’ultima ipotesi ( come a sottolineare la maggior gravità del vilipendio di chi amministri e rappresenti la religione offesa ) sono dati normativi che rendono palese come, sebbene il vilipendio sia diretto ai credenti o a chi è identificato come ministro di culto, ciò che si vuole proteggere è proprio il sentimento religioso. Il ministro di culto e il credente sono assunti come simboli di un valore, la religione, cui è diretta l’offesa e , nella struttura della fattispecie di reato, il vilipendio rivolto a queste entità è un mezzo per offendere la religione dello Stato [66]. Parte della dottrina non ritiene che per la sussistenza del reato sia necessario vilipendere un soggetto determinato. Da tali premesse, ed evidenziando come il vilipendere una persona abbia come scopo quello di offendere la religione, si è sottolineato la vicinanza di questo reato con quelli che tutelano l’onore. Vicinanza, ma non identità dell’oggetto di protezione penale. I reati di ingiuria tutelano l’onore o il decoro di una persona verso eventuali offese, mentre i reati di diffamazione puniscono le offese all’altrui reputazione; infatti i reati che tutelano l’onore assicurano ai consociati << il rispetto della loro personalità sociale >> [67]. Per Prosdocimi [68], il comportamento vilipendioso lede beni propri della persona umana, sia pure colta della dimensione di credente o nella qualifica di ministro di culto; il reato si avvicinerebbe così tanto a quelli contro l’onore che se la condotta non dovesse essere diretta contro la religione, si potrebbe applicare le norme sull’ingiuria e sulla diffamazione.
Soggetto attivo.
Può essere << chiunque >>, anche un fedele o un ministro dello stesso o di altro culto, con eventuale applicazione dell’aggravante della violazione dei doveri inerenti alla qualità di ministro di culto, ex. art. 61, n. 9.
Soggetto passivo.
Si ritiene che oggetto di tutela da parte dell’art. 403 c.p. sia sempre la religione dello Stato, offesa attraverso chi la professa, e che in tale articolo la presenza di due diversi soggetti passivi dia origine ad altrettante diverse ipotesi di reato. Il primo comma prevede il reato di vilipendio di chi professa la religione tutelata, e in cui l’offesa alla religione deve avvenire pubblicamente; mentre nel secondo il vilipendio deve essere diretto verso un ministro del culto cattolico. Si ritiene che il reato previsto dal secondo comma sia più grave, in quanto il comportamento dell’agente è diretto verso chi amministra e rappresenta la religione stessa. Una parte della dottrina [69], prendendo comunque atto della maggior gravità del fatto delittuoso prevista nel secondo comma, si esprime diversamente, ravvisando una semplice circostanza aggravante, di carattere oggettivo, e pertanto estensibile ai compartecipi. Il riferimento a << chi >> professi la religione, indicherebbe la volontà del legislatore che il vilipendio non sia diretto verso una generica collettività di credenti bensì verso persone determinate [70], quindi, quando l’offesa non sia diretta a soggetti determinati, ma ad una collettività di religiosi o a più fedeli, si ritiene che vi siano gli estremi per applicare l’art. 402 c.p. in quanto non si sarebbe leso il bene specifico tutelato dall’art. 403 c.p. Quando l’offesa alla collettività dei fedeli si traduce in offesa ai valori della religione, l’azione lede beni personali e religiosi, e mancherebbe, per l’applicazione dell’art. 403 c.p. una precisa individuazione dell’offesa: il singolo si sentirebbe offeso come membro della comunità religiosa vilipesa, ma non potrebbe lamentare di aver subito ingiurie o diffamazioni. L’offesa non sarebbe immediata, bensì solo << collettiva >>. L’offesa ad una universalità di fedeli, non sarebbe sussumibile sotto l’art. 403 c.p. ma, qualora rivolta verso cattolici, comporterebbe l’applicazione dell’art. 402 c.p..
Di diverso avviso altra parte della dottrina [71], per il quale è del tutto irrilevante che il vilipendio sia diretto a fedeli determinati o meno. Ciò che rileva è l’offesa alla religione, anche posta in essere attraverso i fedeli di questa. L’oggetto di tutela penale non è la libertà di coscienza individuale, bensì la religione: appare più logico escludere il requisito della necessaria determinatezza dei soggetti passivi. Se le norme sull’ingiuria e diffamazione tutelano l’onore nella sua << personalissima essenza >>, l’art. 403 c.p. lo tutela in quanto connesso ad un valore sociale, ad un sentimento religioso. L’onore personale sembra venga affrontato da un profilo pubblicistico e pare non più necessario, come avviene per l’ingiuria e diffamazione,individuare l’oggetto e la direzione del comportamento delittuoso. Sembra essere sufficiente che l’offesa si riferisca, anche in modo meramente implicito, alla persona del credente o del ministro di culto, sebbene il vilipendio sia diretto ad una universalità indifferenziata. Le modalità della condotta devono essere tali da raggiungere ogni singolo membro della comunità dei credenti, in misura concreta e in forma riconoscibile. I sostenitori di questa impostazione non si dimenticano che l’art. 403 c.p. vuole tutelare il sentimento di dignità spirituale dei fedeli in quanto tali, ma questa entità viene riconosciuta come lesa a fronte di un comportamento che non solo offenda valori religiosi, ma che colpisca la religione alla sua base personale.
L’intero articolo non esplicita la necessità della presenza del soggetto vilipeso, per cui è opinione condivisa in dottrina che non ne sia necessaria la presenza per l’integrazione del reato. Per la nozione di ministro di culto cattolico si ritiene che si debba far riferimento alla relativa disciplina del diritto canonico, il quale riconosce come tale colui che è stato investito, in modo permanente, della funzione sacerdotale e della potestà di compiere determinati atti liturgici o di culto. Il contesto legislativo sembra presentare un confusione di terminologie, in quanto è fatto notare in dottrina come la dicitura << ministro di culto >> sia utilizzata nei riguardi di confessioni diverse dalla cattolica, oppure come nozione di genere quando il legislatore vuole riferirsi ai culti in generale. A volte è possibile incontrare una pluralità di espressioni quando il riferimento è fatto alla chiesa cattolica, quali ad esempio << clero >> o << ecclesiastico >>; la qualifica di << religioso >> è di solito usata quando il legislatore vuole riferirsi anche a coloro i quali non siano stati rivestiti degli ordini sacri, ma che hanno professato i voti in un ordine o in una congregazione. Onida [72], fa coincidere quasi totalmente la nozione di ministro di culto con quella che la normativa concordataria fornisce di ecclesiastico, e cioè con quella dei clerici ordinati in sacris, escludendo chi abbia ricevuto i soli ordini minori, ma con inclusione dei sacerdoti, diaconi e suddiaconi. Si rileva come la normativa sugli ecclesiastici attenga a quei cittadini sotto il profilo dello status in seno alla Chiesa Cattolica, mentre la qualifica di ministro di culto si riferisce alla funzione sociale da questi svolta. La miglior dottrina ritiene che, per dare piena effettività al significato di << ministro di culto >>, si debba operare un rinvio per presupposizione all’ordinamento confessionale. Il Manzini non ritiene che per essere ministri del culto cattolico basti essere clerici, ed esclude gli appartenenti ai c.d. ordini inferiori, come i diaconi, suddiaconi, i lectores, ma pure i serventi del sacerdozio come i frati laici, le monache, i campanari e i sacrestani. Definizione molto ampia sembra quella di De Giorgio per il quale si devono considerare ministri di culto << tutti coloro che, sacerdoti o religiosi, svolgano, secondo le regole canoniche, una funzione propria della Chiesa e ciò a cause della potestas a loro conferita >>[73]. Una volta appurato che il credente o il ministro di culto appartiene alla confessione cattolica, l’intera dottrina è comunque concorde nel ritenere che un ulteriore indagine circa la sincerità e il grado di osservanza del culto da parte del soggetto passivo sia del tutto irrilevante ai fini dell’applicazione della pena.
Elemento oggettivo.
Per le varie interpretazioni che si sono date al concetto di << vilipendio >> si rimanda a ciò che si è gia scritto nei riguardi del vilipendio ex. art. 402 c.p.. Basti ricordare che la condotta tipica del reato è costituito dal manifestare sdegno e disprezzo, e che tale comportamento, per la concretizzazione della fattispecie penale in questione, deve essere diretto verso il credente o il ministro di culto, a causa della religione da questi rappresentata, come forma mediata di offesa alla religione [74]. L’offesa alla religione si concreta con un mezzo offensivo particolarmente grave e tale da esporre il credente e il ministro di culto al disprezzo generale. La condotta vilipendiosa può esplicarsi in varie forme, ma deve sempre riguardare un’attività inerente alle funzioni rivestite dal ministro, e non deve essere stata compiuta per ragioni del tutto personali. È necessario identificare un collegamento causale sia fra il soggetto passivo e la religione, sia fra l’offesa e la funzione rivestita; se il vilipendio è diretto verso un sacerdote nell’esercizio del suo ministero, e ciò non rappresenta una mera occasione, ma ne costituisce la causa, si ritiene applicabile l’applicazione della circostanza aggravante ex. art. 61 c.p. [75].
Elemento soggettivo.
Parte della dottrina riconosce nell’art. 403 c.p. la necessità del dolo specifico. Se il codice Zanardelli aveva come scopo quello di salvaguardare la libertà religiosa, nel vigente codice penale si accoda tutela alla religione << in sé e per sé >>, per cui si deve riconoscere nell’agente il fine di offendere la religione, e che tale scopo sia dimostrato nel processo e accertato con sentenza. << L’elemento psicologico consiste nella volontà del fatto con il fine di offendere la religione cattolica apostolica romana, per offesa della quale il vilipendio deve mostrarsi come mezzo >> [76]. L’elemento soggettivo risulterebbe duplice: l’intenzione di vilipendere il credente vale come presupposto per la volontà di offendere la religione dello Stato. Il contenuto dell’atteggiamento psichico risulta essere di tenere a vile il credente o il ministro del culto, in ragione della propria religione e con la volontà di offendere la medesima. Altra parte della dottrina [77] ritiene invece che la punibilità sia a titolo di dolo generico. È sufficiente che il vilipendio compiuto con coscienza sia accompagnato dalla consapevolezza che la religione riceva da esso un’offesa, senza che assuma importanza un fine specifico di offendere la religione dello Stato. A sostegno di quest’ultima tesi si fa riferimento prima di tutto al dato testuale. Il codice punisce chiunque << offende mediante vilipendio >>, e non << chiunque al fine di offendere vilipende >> chi professa la religione dello Stato o il ministro di culto cattolico. L’offesa della religione è diretta conseguenza del comportamento vilipendioso, e non può dirsi riconosciuta dal codice come fine o scopo propostosi dall’agente. Vi sono anche ragioni di ordine sostanziali per le quali non solo sarebbe arduo dimostrare il fine specifico dell’agente, ma per quest’ultimo sarebbe sin troppo facile sostenere che non era sua intenzione offendere la religione dello Stato, bensì che la sua azione era solo diretta, verso qualsiasi altro scopo non considerato dalla norma penale. Come avviene per la disputa creatasi intorno alla questione se sia corretto o meno parlare di dolo specifico ex. art. 402 c.p., anche per l’art. 403 c.p. è sorta una corrente dottrinale che cerca di conciliare le due diverse impostazioni [78]. Sarebbe irrilevante accertare il titolo del dolo ai fini del reato, in quanto vilipendere il ministro del culto cattolico o colui il quale professa la religione dello Stato, equivale ad arrecare offesa alla religione dello Stato: la religione dello Stato si identifica con le entità verso cui è diretta l’azione vilipendiosa. È sufficiente volere il fatto vilipendioso per avere offesa alla religione dello Stato. Le verità teologiche ed organizzative sono considerate un tutt’uno e nel loro complesso formano la religione cattolica, che può venir offesa anche con il semplice vilipendio dei suoi ministri.
Pubblicità.
Il requisito della pubblicità, richiesta solo per il vilipendio del credente, appare una logica conseguenza del fatto che il reato non offende un privato, bensì la religione, e per essere percepito come tale, deve esplicarsi al cospetto di più persone, oltre al soggetto passivo [79]. Si ritiene che la pubblicità deve essere concomitante, e non successiva, al fatto vilipendioso, infatti << per la natura del delitto e per la chiara dizione del testo, la pubblicità debba verificarsi nel momento stesso in cui il vilipendio viene commesso e così, accompagnare questo ed esserne quasi una modalità >> [80].
Art. 404 c.p.
Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di cose.
<< Chiunque, in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, offende la religione dello Stato, mediante vilipendio di cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto, o siano destinate necessariamente all’esercizio del culto, è punito con la reclusione da uno a tre anni. La stessa pena si applica a chi commette il fatto in occasione di funzioni religiose, compiute in luogo privato da un ministro del culto cattolico >>.
Interesse tutelato.
Si ritiene che anche l’art. 404 c.p., al pari dell’art. 403 c.p., tuteli in modo indiretto la religione. A ciò si deve aggiungere il valore patrimoniale o intrinseco delle res sacrae, che induce il Siracusano a parlare di << reato a fattispecie plurioffensiva >> [81].
Soggetto attivo.
Anche un appartenente alla religione vilipesa o un ministro del culto possono risultare soggetti attivi; in quest’ultimo caso ricorre la circostanza aggravante ex. art. 61 n. 9 c.p.
Elemento oggettivo: il vilipendio.
Per quanto riguarda la nozione di vilipendio si rimanda a quanto detto nei riguardi dell’art. 402 c.p. Si ritiene che la condotta di spregio possa manifestarsi con ogni mezzo idoneo, sia con un atto materiale che con parole. Anche il distruggere o il guastare sono comportamenti che possono integrare la fattispecie di reato. Il primo togliendo all’oggetto la propria forma originaria, il secondo nel recare danno all’oggetto, in modo che non possa più servire alla sua destinazione. Il Tascone [82] sottolinea come nella maggior parte dei casi le azioni che profanano cose sacre manifestano sempre un intento vilipendioso, che può esprimersi anche con parole o scritte offensive. Ricorre vilipendio generico anche quando l’azione si dirige fuori dalla presenza della cosa stessa; ad esempio nel caso di un imitazione denigratoria di un oggetto di culto. La tutela offerta dall’art. 404 c.p. si dirige verso << cose >>, oggetti materiali e non verso idee o funzioni religiose. La dottrina ritiene che l’elencazione del presente articolo sia tassativa, ed è indifferente lo stato di conservazione delle cose, la loro importanza artistica o storica o che siano beni mobili o immobili. Si ritiene che costituiscano << cose che formano oggetto di culto >> tutte quelle cose verso cui la religione accorda tributo, adorazione o che, rappresentando Dio,formino oggetto di preghiera: basti pensare alle immagini sacre, alle reliquie. Anche la Sindone è stata riconosciuta, dalla giurisprudenza, oggetto di culto, in quanto custodita in un apposita cappella ed esposta periodicamente ai fedeli. In tale categoria rientrano quelle cose verso cui il culto specificatamente si rivolge, come il crocefisso, l’ostia consacrata o l’immagine della Madonna esposta nelle Chiese. Non si ritiene [83] ipotizzabile sussistere il reato ex. art. 404 c.p. nel caso in cui si offendano i c.d. santini, non essendo cose oggetto di culto, né consacrate al culto, né destinate necessariamente al culto. Il Manzini ritiene irrilevante che le cose siano state benedette o consacrate, una volta che si sia accertato che formino oggetto di culto. Il vilipendio si verifica su cose consacrate o destinate al culto, ma è sempre richiesto che vi sia un minimo di integrità dei beni per raggiungere un certo grado di obbiettività [84]. Nei riguardi delle << cose consacrate o destinate al culto >> si rileva come siano riconoscibili in tutte quelle cose che abbiano ricevuto un particolare atto rituale da parte del vescovo che le abbia consacrate, o una benedizione da parte del sacerdote, secondo le regole del diritto canonico. Si fanno rientrare in tale definizione le chiese, gli altari, le campane, ma anche l’olio santo e i libri liturgici [85]. La cosa non può perdere la sua destinazione se non a seguito di vera e propria sconsacrazione; << agli effetti giuridici, però, occorre sempre, in fatto, l’uso o il disusi della cosa, secondo la sua destinazione >> [86]. << Cose destinate necessariamente al culto >> sono quelle cose, non benedette, senza le quali non sarebbe possibile lo svolgimento dei riti sacri:per la religione cattolica ciò è costituito da tutto un insieme di cose quali gli stendardi, le ampolle, ma anche la pisside [87], i ceri, le ampolle [88]. La destinazione al culto deve essere comunque attuale; il vilipendio diretto verso cose non ancora adibite al servizio della funzione, o che siano state sospese dalla relativa funzione, non integra l’elemento richiesto dall’art. 404 c.p.[89]. Tali cose possono essere dirette all’esercizio del culto in modo permanente ( come le croci o i sacri paramenti ) oppure in via transitoria ( es: banchi o i candelabri ). Anche le campane sono comunemente considerate cose destinate al culto, in quanto consacrate e aventi come ufficio quello di richiamare i fedeli per le funzioni religiose. Per avere un comportamento che risulti sussumibile sotto la previsione normativa considerata, è necessario che il comportamento vilipendioso si compi in un luogo destinato al culto, in un luogo pubblico o aperto al pubblico. Il luogo destinato al culto comprende ogni luogo che, secondo la volontà dei professanti la religione, o delle autorità religiose, sia stato destinato all’esercizio delle funzioni religiose. La Chiesa rientra in questa categoria dei luoghi destinati al culto, essendo un edificio dedicato al culto della divinità, costruito con lo scopo di far radunare i fedeli e per questo consacrato. Destinati al culto possono essere anche gli oratori e le cappelle. Fuori da luoghi destinati al culto, il vilipendio può manifestarsi in un luogo pubblico o aperto al pubblico. Anche in questo caso, bisogna far riferimento alla nozione di luogo pubblico ex. art. 266 c.p.. Non solo i luoghi pubblici per natura, quali piazze e strade, ma pure i luoghi aperti al pubblico o esposti al pubblico, possono farsi rientrare in questa categoria. La qualità di luogo pubblico è sufficiente; non bisogna credere che tale sia anche la pubblicità dell’evento, magari anche attuale ed effettiva. La dottrina infatti distingue, e non può essere altrimenti, la pubblicità del luogo da quella del fatto [90]. Il Mancini [91] ritiene necessario considerare la destinazione attuale del luogo, e il carattere duraturo e permanente della destinazione, mentre risulterebbe irrilevante che luogo sia pubblico o privato o la presenza di fedeli o ministri del culto.
La miglior dottrina dichiara che nel comma secondo dell’art. 404 c.p. sia ravvisabile un ipotesi autonoma di reato. Il vilipendio è diretto su una delle cose indicate nel primo comma, in un luogo privato ( che non deve essere destinato al culto, perché in caso contrario verrebbe ad integrarsi l’ipotesi prevista dal primo comma) , commesso in occasione di funzioni religiose compiute da un ministro del culto. Il legislatore copre di tutela penale il luogo privato se e in quanto occasionalmente vi si compia una funzione religiosa. È sufficiente che il comportamento vilipendioso si realizzi in occasione di dette funzioni, senza che rilevi un nesso di contemporaneità fra fatto vilipendioso e funzione. È necessario che il ministro di culto << compia >>, e non solo assista, la funzione [92].
Elemento soggettivo.
La comune dottrina ritiene che, al pari di quanto accada per gli articoli precedenti il 404 c.p., non sia necessario il dolo specifico di offendere la religione; è solo richiesto la consapevolezza dell’agente che la propria condotta sia riconosciuta dall’ordinamento come vilipendiosa. Altra parte della dottrina è di diversa opinione. Per Santoro [93] il dolo si concretizza nella coscienza e volontà di vilipendere le res sacrae al fine di offendere la religione; mentre il Manzini [94] sottolinea che sarebbe proprio questo specifico scopo a differenziare il reato in questione da tutta quella serie di reati con cui l’art. 404 c.p. avrebbe in comune il dato meramente materiale [95]. Spirito [96], ritiene necessaria una volontà generica di vilipendere i beni previsti dalla norma, e una volontà specifica di vilipendere la religione. In quanto sono elementi del fatto, si ritiene necessaria la consapevolezza, sia della qualità delle cose, sia della natura dei luoghi. Contrario il Mancini [97], che considera quest’ultimo profilo come una mera condizione di punibilità e che ritiene che sufficiente che l’agente conosca anche solo in modo generico l’attinenza della cosa con la religione, e non anche la sua specifica qualità di rea sacra.
Art. 405 c.p.
Turbamento di funzioni religiose del culto cattolico.
<< Chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto cattolico, le quali si compiano con l’assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in luogo pubblico o aperto al pubblico, è punito con la reclusione fino a due anni. Se concorrono fatti di violenza alle persone o di minaccia, si applica la reclusione da uno a tre anni >>.
Interesse tutelato.
L’articolo in questione mira a tutelare il sentimento religioso quale patrimonio etico dei consociati. Il legislatore ha voluto tutelare in modo specifico le << funzioni, cerimonie e pratiche religiose >> che costituiscono manifestazione concreta della libertà religiosa individuale e collettiva. Tali comportamenti necessitano di una specifica tutela giuridica in quanto la libertà religiosa, << non solo costituisce un interesse primario ed essenziale per la vita della società civile >> [98], ma è da considerare come un’entità << ritenuta più facilmente vulnerabile … in considerazione pure dell’intensità delle passioni e dei contrasti cui possono dar luogo i riti, le cerimonie e le pratiche religiose >> [99]. Ciò che si vuole vestite di tutela penale è il diritto collettivo di libertà religiosa, in coerenza con l’impostazione generale del codice circa la difesa del bene-religione. È vero che il singolo credente, quando esercita pratiche di fede, gode di una tutela penale, ma solo perché il legislatore lo prende in considerazione quale componente di una collettività religiosa, e mai uti singulus. È sempre la tutela del sentimento religioso della collettività che può figurarsi come vero oggetto di tutela, sebbene il reato di turbatio sacrorum offenda la libertà religiosa del singolo credente nell’esplicazione del culto [100]. Il Masselli arriva a sostenere che il bene tutelato possa riconoscersi, nella tranquillità e regolarità della cerimonia, della << quies fidelium >> [101]. La dottrina ha rilevato che sebbene solo nell’art. 405 c.p. il legislatore usi la dicitura culto << cattolico >>, ciò non comporti un sostanziale mutamento nei riguardi dell’entità oggetto di tutela, i quanto il riferimento è da operare nei riguardi della religione << dello Stato >>, quale equivalente della religione cattolica [102]. Soggetto attivo.
Può essere chiunque: anche un ministro dello stesso o di altro culto; in tal caso potrà ricorrere la circostanza aggravante dell’art. 61 n. 9
Elemento oggettivo.
Il fatto costitutivo del reato è riconoscibile nell’impedimento o turbamento di una funzione, cerimonia o pratica religiosa. Il legislatore penale non ha voluto scegliere espressioni relative a concetti normativi precisi e rigorosi, ma il richiamo ad espressioni così generiche è frutto di una precisa valutazione tesa a comprendere tutte le manifestazioni esteriori del culto praticato. Si ritiene che non ogni manifestazione di dissenso sia idonea ad integrare la fattispecie di reato; è richiesto un elemento materiale che abbia alterato i tempi e le modalità della cerimonia, che abbia inciso nei riguardi del normale iter della cerimonia [103]. L’impedimento << si verifica quando la funzione, cerimonia o la pratica, per il fatto dell’agente, non abbia potuto avere inizio, effettuarsi o compiersi >> [104]; mentre il turbamento si verifica quando il << la cerimonia, ecc., già iniziata, sia stata, per il fatto dell’agente, interrotta o sospesa momentaneamente, o comunque modificata o inceppata, nel suo svolgimento normale >> [105]. È opinione comune che l’art. 405 c.p. si riferisca alla nozione di turbamento in senso reale e oggettivo, e non in senso psicologico; e non è sufficiente, per esempio,che i fedeli risultino agitati o commossi [106]. Il fatto che si debba turbare o impedire l’esercizio, risulta essere prova che il mero turbamento morale è indifferente ai fini della sussistenza del reato. Il Massignani [107], osserva come il << raccoglimento dei fedeli >>non risulti oggetto di protezione penale da parte dell’art. 405 c.p., sebbene lo si possa riconoscere come parte integrante della liturgia; nemmeno il loro << personale sentimento >> sarebbe oggetto di particolare attenzione, se non relativamente al particolare profilo estrinseco ed obbiettivo in cui il culto si manifesta. Ciò varrebbe anche nell’ottica di una presupposizione dell’ordinamento proprio della Chiesa: una qualsiasi distrazione del sentimento di raccoglimento dei credenti non può ritenersi sussumibile sotto la definizione di turbatio sacrorum. A tale tesi sembra concordare anche il Colella [108], il quale ritiene necessario che vi sia stata una obiettiva alterazione dei modi e dei tempi della funzione, e che la ratio della norma impedisca di punire mere manifestazione di dissenso. Riferirsi all’ << impedimento >> o al << turbamento >> significa rifarsi al risultato della condotta, mentre è del tutto indifferente per il legislatore il mezzo che l’agente scelga per porre in essere tale comportamento [109]. Per avere il reato ex. art. 405 c.p. è necessario che l’impedimento o il turbamento siano realizzati: è richiesto un evento, un risultato materiale [110].
L’impedimento o il turbamento devono riguardare una << funzione, cerimonia o pratica religiosa >> del culto cattolico. L’attributo comune e fondamentale e che siano religiose e facenti parte del culto cattolico, che si svolgano cioè nel culto cattolico. Elemento non meno importante è la ritualità. Si ritiene che il << fasto >>, o la << solennità >>, a nulla valgono per attribuire ad una funzione o cerimonia il carattere della ritualità, e che il legislatore abbia aggiunto la parola pratiche ( religiose ) a funzioni e cerimonie, proprio per non escludere nessun atto di culto, e che tale parola integri le parole funzioni e cerimonie. L’elencazione è tassativa, ma si ritiene che tali definizioni comprendano qualsiasi atto rituale religioso esterno, collettivo o anche individuale. Come avviene molto spesso per gli articoli di questo Capo I, anche in questo caso la dottrina si divide fra chi ritiene necessario un rinvio per presupposizione la diritto canonico, e chi ritiene che sia opportuno far riferimento alla comune esperienza, o comunque senza vincoli di presupposizione [111]. Per << funzione >> deve intendersi l’ esercizio degli atti essenziali del culto, nei quali esso si manifesta, quali la Messa o la predicazione. Proprio nei riguardi della predica il Santoro [112], rileva come essa integri una funzione tipica , in quanto diretta alla divulgazione della dottrina cattolica e che rappresenti la più alta manifestazione in cui si eserciti il magistero sacerdotale. La << cerimonia >> è un atto che accompagna il culto con carattere di complementarità, come ad esempio la processione, che ha lo scopo di esaltare il sentimento religioso dei fedeli, e di rendere omaggio alla divinità anche fuori della chiesa; anche gli accompagnamenti funebri sono generalmente riconosciuti come facenti parti della cerimonia, purché si svolgano con l’intervento di un ministro del culto, perché sono riconosciuti come atti complementari rispetto al rito funebre propriamente detto. Le << pratiche religiose >>, possono ravvisarsi in tutti gli atti rituali osservati dai fedeli, con i quali si vuole adempiere a un dovere della pratica religiosa, senza che assuma rilevanza la presenza di un ministro del culto. In tale categoria rientrano quei comportamenti che anticipano o che si pongono come << esterni >> alla funzione in senso stretto, come la recita del Rosario, le lezioni del catechismo, o il canto in chiesa [113]. Si ritiene che non possano farsi entrare in nessuna delle classificazioni appena descritte tutti quei atti che, benché posti in relazione con la religione, sono privi di una natura religiosa, come l’istruzione dei clerici, i giubilei, le assemblee di associazioni politico-religiose, le udienze dei tribunali ecclesiastici [114]. Un problema avvertito in dottrina, come in giurisprudenza, è quello della rilevanza del contenuto dell’atto, cioè della possibilità di escludere il reato qualora, in conseguenza di detta valutazione, risulti un comportamento estraneo alla funzione religiosa: un aspetto che assume rilevanza in special modo nei casi di turbativa di predica commessi nel corso della celebrazione liturgica. Una parte della dottrina ritiene che non si debba sindacare la conformità della predica all’insegnamento della dottrina e quindi non si può escludere la punibilità di quei comportamenti che turbino o impediscano una predica che affronti argomenti politici o sindacali. Secondo tale orientamento il giudice penale deve fermarsi al dato formale dell’inserimento della predica nel rito svolto, senza svolgere valutazioni circa l’aderenza o meno della predica agli insegnamenti della Chiesa; il giudice non potrebbe nemmeno valutare se la materia trattata sia religiosa o meno [115]. Altra parte della dottrina, che si può considerare dominante, ritiene che si possa operare una valutazione circa la pertinenza della predica con valori religiosi, ed escludere il reato quando tale pertinenza non sussista, o la predica di discosti in modo rilevante dal magistero della Chiesa, oppure si risolva in semplici opinioni personali del parroco. Il carattere di funzione religiosa emerge dal contenuto degli atti, e non da meri fattori ambientali, per cui lo Stato deve accertare se l’attività posta in essere integri un l’esercizio di un munus spirituale. Non si riconosce tutela penale quando il contenuto della predica contrasti con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico statale, e si ritiene necessario che essa abbia, nel suo contenuto un profilo di catechesi conforme al magistero della Chiesa [116]. Per quanto riguarda la predica, per esempio, si è detto che essa sussista quando il celebrante svolge un’attività di catechesi conforme al magistero della Chiesa, e rientrerebbe nel potere cognitivo del giudice quello di accertare detta conformità. Secondo Musselli [117] a niente varrebbe invocare il principio di laicità dello Stato, come è stato fatto in certe sentenze giurisprudenziale [118] , in quanto esso non verrebbe posto in discussione dall’applicazione di norme finalizzate a proteggere il culto cattolico, bensì dalla loro stessa vigenza all’interno dell’ordinamento statuale. Il fatto che il giudice assuma una disposizione di tale ordinamento al fine di qualificare una certa situazione di fatto, o prendendola come mero presupposto, dovrebbe essere interpretato come una valorizzazione dell’ordinamento canonico, e non come una lesione della sua sovranità. Il Saraceni [119], nei riguardi del requisito della << regolarità >>, riconosce la disciplina canonica come un criterio di interpretazione, o come un presupposto in senso tecnico. Non sembra dirsi cosa errata se si afferma che un tale ragionamento può farsi per tutta quella serie di casi ( per esempio nei riguardi della << sacralità >> o meno di una cosa, o dello status di ecclesiastico di una persona ) in cui è necessario dare contenuto a qualificazioni richiamate dal codice penale. Perché il reato si perfezioni è necessario che il comportamento delittuoso sia diretto verso funzioni, cerimonie o pratiche compiute con l’assistenza di un ministro del culto o in uno dei luoghi indicati nel comma 1. Il primo requisito è generalmente ritenuto elemento del fatto, sebbene qualche autore lo riconosca come mera condizione di punibilità [120]. Per << assistenza >> è da intendere sia un esecuzione passiva che attiva, ciò basta per attribuire all’evento un aspetto ufficiale religiosità, tale da giustificare la protezione penale; non si ritiene sufficiente la semplice presenza del ministro del culto.
Elemento soggettivo.
Larga parte della dottrina [121] ritiene che sia necessario il solo dolo generico. È sufficiente che il comportamento che ha impedito o turbato la funzione, cerimonia o pratiche religiosa sia stato compiuto con coscienza e volontà, senza che sia necessario il fine specifico di offendere la religione: l’offesa è considerata in re ipsa. Musselli, sviluppando un ragionamento che può essere fatto valere per tutti gli articoli del Capo I del Titolo IV, sottolinea come il riferimento del legislatore al dolo generico non sia manifestazione di scarso interesse nei confronti della volontà che ha mosso l’agente a compiere reato, e che il requisito del dolo generico non esenta il giudice dal verificare la sussistenza o meno di un profilo cognitivo e volitivo nell’agente. Ciò che è richiesto ai fini della sussistenza del reato è la voluntas turbandi, che si realizzerebbe << nell’intenzione di servirsi del mezzo materiale al fine di sommuovere quella tranquillità o regolarità della cerimonia, che appare essere il bene giuridico immediatamente protetto dalla norma >> [122]. Per Gallo si finirebbe per esaltare il profilo materiale a scapito dell’elemento psicologico dell’agente, se si dovesse accogliere la tesi, di chi fa riferimento al dolo in re ipsa: parlare di dolo generico non significa accertare una condotta che sia solo diretta a porre in essere il comportamento materiale, bensì indagare se nell’agente vi fosse la consapevolezza << di realizzare un fatto conforme a quello descritto dalla norma incriminatrice >> [123]. Si ritiene, per esempio, che l’atto di inveire a voce alta contro un ministro di culto, in uno dei luoghi previsti dal comma 1, implichi di per sé la coscienza e volontà di turbare la funzione religiosa. Se l’agente agisce perché, ad esempio, abbia ritenuto che nella predica si svolgessero argomentazioni contrarie alla morale cattolica, ciò è irrilevante ai fini dell’applicazione del reato, perché sono gli stessi fini per i quali è stata posta in essere l’azione che non assumono rilevanza. Di opinione opposta il Florian, per il quale non vi sarebbe differenza sotto il profilo dell’elemento soggettivo fra l’art. 140 c.p. Zanardelli e l’attuale art. 405 c.p. L’autore riconosce che lo specifico fine di turbare la funzione religiosa non è più richiesto, ma parrebbe implicito una volta aver affrontato uno studio sistematico delle norme in cui è inserito il detto articolo. Il fatto che si parli di << Dei delitti contro il sentimento religioso >> e << Dei delitti contro la religione dello Stato >>, sembra essere palese dimostrazione che il momento volitivo dell’agente debba essere diretto contro queste precise entità. Sebbene l’intento dell’autore di liberalizzare una serie di norme frutto di una concezione statalistica e autoritaria sia meritevole di apprezzamento, le conclusioni non sono accolte in dottrina che, come si è detto, preferisce la tesi del dolo generico. Il Jasonni [124], cerca di giustificare il dolo generico alla luce di una interpretazione sistematica del Capo I. In tema di tutela del sentimento religioso appare ovvio che il legislatore abbia inteso reprimere i delitti a seconda degli scopi che si è prefissato nelle rubriche relative ai delitti ex. art. 402 c.p., in cui si parla di vilipendio, offese e per quanto riguarda l’art. 405 c.p. di turbamento. Se la volontà di un evento acquista particolare importanza alla in conseguenza a seconda degli elementi oggettivi di ogni singola fattispecie, e se << offesa >> e << turbamento >> sono ipotesi oggettive distinte, l’autore deduce che la volontà di offendere è qualcosa che bisogna per distinguere dalla volontà di << turbare >>. Il motivo per cui il legislatore non usa una formula omologa a quella ex. artt. 403 e 404 c.p. ( che sarebbe potute essere << Offese alla religione dello Stato, mediante turbamento di funzioni religiose del culto cattolico >> ), e il fatto che sia scomparsa la dicitura << per offendere uno dei culti >> sarebbe una palese dimostrazione della volontà del legislatore di non pretendere nell’agente più il dolo specifico di offendere la religione dello Stato. Dello stesso parere del Florian è il Colella [125], il quale ritiene che sia necessario l’ animus turbandi dell’agente, e che non si debba verificare la sola coscienza e volontà di arrecare offesa al sentimento religioso. Accogliere la tesi del dolo specifico significa accogliere la possibilità di inconvenienti pratici, che potrebbero evitarsi qualora si volesse optare per la tesi opposta. Basti pensare che, ogni casi di interruzione, un semplice suono o un moto corporeo, idoneo a distrarre l’attenzione dei fedeli, che non avvenga a causa di forza maggiore, potrebbe integrare la fattispecie di reato.
Circostanze.
Quando vi sia l’assistenza del ministro del culto, e l’offesa risulta diretta in via immediata contro quest’ultimo, si applica la circostanza aggravante ex. art. 61 n. 10. La circostanza aggravante prevista dal comma 2 si applica qualora vi sia violenza o minaccia verso persone. Per violenza è da intendersi << l’uso illecito della forza fisica contro la persona … non comprende anche la forza morale, giacché in tal caso, si verifica la minaccia, indicata distintamente >> [126]. Per minaccia basti far riferimento alla definizione contenuta nell’art. 612 c.p. Il fatto che il codice non faccia riferimento alle persone, è una logica conseguenza del fatto che tale comportamento non può essere diretto se non verso individui, mentre la violenza può avere per oggetto anche beni materiali [127]. Si tratta di circostanza oggettiva ad effetto speciale, che importa l’applicazione dell’art. 63 c.p.,ed esclude il concorso con i reati ex. art. 610 e 612 c.p., ma non i reati di violenza di gravità superiore alle percosse. La violenza o minaccia deve accompagnare il fatto, deve cioè svolgersi mentre si turbi o si impedisca la funzione [128]. Santoro [129] nota che, sebbene il reato previsto dal secondo comma sia specifico rispetto a quello di violenza privata, non appare logico aver previsto una pena che va da uno a tre anni, quando per il reato ex. art. 610 c.p. la pena applicabile risulta arrivare fino a quattro anni. Per il Florian, siamo in presenza di un reato complesso, in quanto la minaccia o la violenza formano reati separati: tali comportamenti sono modalità del fatto, che causano il turbamento o l’impedimento, e che possono anche svolgersi in modo parallelo o concomitante. La lesione personale ex. art. 582 c.p. è qualcosa di diverso dalla minaccia per cui, qualora si verifichi con i soli caratteri della violenza, sarà da considerarsi come mera circostanza aggravante. Se ciò non dovesse verificarsi ( come nell’ipotesi ex. art. 585 c.p. ) si applicheranno le norme sul concorso fra reati. Qualora l’agente compia vilipendio ex. art. 403 c.p. al fine di impedire o turbare le funzioni, cerimonie o pratiche, si dovrebbe applicare il solo art. 405 c.p..
Art. 406 c.p.
Delitti contro i culti ammessi nello Stato.
<< Chiunque commette uno dei fatti preveduti dagli articoli 403, 404, 405 contro un culto ammesso nello Stato, è punito ai termini dei predetti articoli, ma la pena è diminuita >>.
Elemento oggettivo. La nozione di culti ammessi.
Il codice Rocco, con l’espressione << culti ammessi >> fa riferimento alla definizione e disciplina contenuta nella legge 24 giugno 1929, n. 1159, per la quale sono ammessi i culti acattolici che non professino principi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico. La comune dottrina ritiene che, ex. art. 8 e 19 della Costituzione, la stessa posizione giuridica dei << culti ammessi >> debba essere rivista e che sia più opportuno sostituire il precedente regime di ammissione controllata con un generale principio di libertà di tutte le confessioni. La nozione culti << ammessi >> sembra richiamare quella di culti << tollerati >>, il che non appare più accettabile alla luce dei principi che hanno ispirato la Costituzione in materia di religione, per questo motivo pare più corretto permettere che la dicitura << culti ammessi >> sia interpretata come << confessioni religiose tout court>>. La Corte costituzionale ha precisato con sentenza 27 aprile 1993, n. 195, tesi accolta dalla miglior dottrina, che ogniqualvolta la legge accordi certi benefici, in mancanza di una intesa, non è sufficiente che i membri di un culto qualifichino essi stessi la loro confessione come << religiosa >>; sarebbe sempre necessario una certa incidenza sociale del culto e un riconoscimento pubblico o uno statuto da cui possano trasparirne i caratteri, o comunque una comune diffusa considerazione. Un culto con tali caratteristiche, in assenza di un intesa con lo Stato ex. art. 8 comma 3 Cost. [130], è oggetto di tutela penale ex. art. 406 c.p., senza che sia necessaria un formale atto di ammissione. La disciplina dei culti ammessi rimane applicabile solo nei limiti di quanto detto: è solo richiesto che lo statuto e la disciplina interna non siano in contrasto con l’ordinamento giuridico italiano [131].
Casistica.
Per individuare chi sia ministro di culto diverso da quello cattolico bisogna far riferimento alla disciplina propria della confessione considerata, secondo un rinvio per presupposizione, senza che assuma rilevanza determinante una possibile analogia di funzioni con quella dei sacerdoti cattolici [132]. Se il sistema precedente alla Costituzione era caratterizzato da poteri di ingerenza degli organi statuali e da limitazioni rispetto alle nomine dei ministri di culto acattolici, nella materia de qua lo Stato si limita a prendere atto che la confessione presa in considerazione qualifica come ministro di culto una certa persona; il controllo dello Stato sulle nomine è previsto solo quando la confessione desidera conseguire vantaggi previsti dalla legge statuale, oppure quando vuole che dai comportamenti dei propri ministri di culti derivino effetti giuridici; in tal caso è necessario un atto formale di approvazione secondo la legge del 1929 n. 1159, ma che non è una abilitazione che attribuisce particolari vantaggi a determinati soggetti. Ciò non vale nelle ipotesi di intese fra Stato e confessioni ex. art.8 della Costituzione, perché in questi casi non solo è sempre prevista l’esclusione di ingerenze nelle nomine, ma si prevede che lo Stato accetti come ministro di culto chiunque risulti tale in base alla certificazione statale.[133] Anche per quanto riguarda i culti ammessi è sorta la questione, al pari dell’art. 403 c.p., se il vilipendio del fedele debba essere rivolto verso una o più persone determinate o determinabili, oppure se sia sufficiente una condotta che leda la generalità dei credenti o la confessione come tale. Parte della dottrina, sul rilievo che nel nostro ordinamento non esiste una norma che punisca il vilipendio generico contro i culti acattolici, sostiene che oggetto di vilipendio non può essere una collettività di persone legate da una stessa fede religiosa in quanto la << collettività >> non può mai essere considerata come un ente ( persona giuridica o associazione non riconosciuta ) distinta dai fedeli medesimi. Di diverso avviso il Flora[134], per il quale la struttura dell’art. 403 c.p. dimostra che l’offesa alla religione rilevi solo se mediata dall’offesa alla dignità del singolo fedele.
L’art. 406 c.p. come titolo autonomo di reato o circostanza.
Parte della dottrina sostiene che l’art. 406 c.p. sia una circostanza attenuante speciale dei vari articoli da esso richiamati. Secondo il Manzini, in detta disposizione muta solo il soggetto passivo, ma la struttura dei reati rimane sempre la stessa: saremmo in presenza di una circostanza oggettiva e non ad effetto speciale, per cui in presenza di un concorso con altre circostanze si dovrebbero seguire la disposizione ex. art. 63, prima parte, e che in caso di errore dell’agente circa l’appartenenza del soggetto passivo all’appartenenza del ministro del culto alla religione cattolica e non ad altra confessione, ex. art. 60 c.p. si dovrà comunque applicare la diminuzione [135]. Gabrieli [136], esclude che l’art. 406 c.p. sia un << subtitolo >> dei precedenti, ma ammette che si debba riconoscere come le varie ipotesi delittuose previste dal suddetto articolo costituiscano figure atipiche rispetto alle fattispecie legali cui fanno riferimento, e ciò proprio in conseguenza del differente oggetto di tutela: i << culti ammessi >> e non più la << religione dello Stato >>. Sul presupposto che si tratti di una circostanza aggravante il Nappi[137] sostiene che non si debba effettuare un giudizio di prevalenza o equivalenza fra la circostanza ex. art. 405 c.p. secondo comma e l’art. 406 c.p., e che la riduzione di pena prevista da quest’ultimo articolo dovrà calcolarsi sulla base del primo. Altra parte della dottrina vede nell’art. 406 c.p. una ipotesi autonoma di reato. Fiandaca e Musco [138], sembrano accogliere questa tesi sul fatto che le strutture della fattispecie di reato siano omologhe e la ratio che sottende le varie norme sia la medesima; ma Fiandaca sembra successivamente distanziarsi da detta impostazione facendo notare che il dato testuale utilizzi la formula lessicale tipica della attenuanti; in tal modo si risolverebbe il problema pratico di determinare la pena diminuita in quanto, ex. art. 65 c.p., quando l’entità della diminuzione non è predeterminata, essa non può eccedere il terzo. Padovani non riconosce nell’art. 406 c.p. una circostanza attenuante, in quanto le varie ipotesi in esso contenute non rientrano nelle varie fattispecie richiamate, facendo venir meno il requisito della specialità. I limiti di pena dovrebbero essere calcolati sul piano edittale; la diminuzione prevista dall’art. 406 c.p. varrebbe fino ad un terzo, e spazierebbe da una massima diminuzione sul minimo ( pari a quattro mesi ) a una minima diminuzione sul massimo ( pari a un giorno ).
Art. 724 c.p. [139]
Bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti.
<< Chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità o i Simboli o le Persone venerate nella religione dello Stato è punito con l’ammenda da lire ventimila a seicentomila. Alla stessa pena soggiace chi compie qualsiasi pubblica manifestazione oltraggiosa verso i defunti >>.
Interesse tutelato.
L’incriminazione della bestemmia è tesa a reprimere una particolare manifestazione di malcostume che, offendendo << la Divinità o i Simboli o le Persone >> oggetto di culto nella religione cattolica, è ritenuta contraria al sentimento religioso della collettività [140]. Per questo motivo la bestemmia è stata classificata tra le contravvenzioni << concernenti la polizia dei costumi >>, e non tra i delitti, anche perché spesso si tratta solo di comportamenti dovuti più a cattiva educazione che ad una effettiva volontà di offendere. Alcuni autori ritengono [141] non accettabile aver trattato la bestemmia contro la Divinità al pari di trasgressioni di norme sulla decenza o sul gioco d’azzardo; il sentimento religioso è uno dei beni primari dell’uomo e non sembra corretto collocarlo tra ipotesi di reati di minor gravità . Non si ritiene accettabile nemmeno le ragioni adottate dal Guardiasigilli, che affermò di aver collocato la bestemmia tra le contravvenzioni per renderla più facilmente punibile, il che non sarebbe stato possibile qualora si avesse dovuto procedere all’accertamento del dolo; infatti è vero che in certi reati l’accertamento del dolo può risultare difficile, ma non nelle ipotesi di ingiuria, tra cui, secondo l’autore, dovrebbe figurare la bestemmia.
Soggetto attivo.
Chiunque può figurare come soggetto attivo del reato di bestemmia, anche un appartenente alla religione cattolica o un ministro del culto.
Elemento oggettivo.
Per Divinità deve intendersi Dio nella persona della Trinità cristiana: Padre, Figlio e Spirito Santo; costituisce un comportamento che integra la fattispecie normativa anche la manifestazione oltraggiosa genericamente diretta a Dio [142], per cui, secondo Marini [143],un problema di sperequazione nella tutela dei culti acattolici si pone solo in relazione alla tutela delle Persone e dei Simboli. Le Persone venerate possono riconoscersi nella figura della Madonna, dei Santi dei Beati, e tutti coloro i quali sono ammessi dalla Chiesa al culto dei fedeli. I simboli sono i segni che rappresentano la fede religiosa fatta oggetto di culto ( come ad esempio, l’ostia consacrata o la croce ) [144]. La bestemmia può compiersi con una manifestazione scritta o orale di parole ( che nel caso in cui sono ripetute con veemenza costituiscono invettiva ) oltraggiose ( cioè offensive, o comunque gravemente sconvenienti ), pronunciate verso la Divinità, le Persone o i Simboli. E’ ritenuto irrilevante che le parole siano accompagnate da gesti, che da soli non potrebbero mai integrare la fattispecie di reato; per contro non assume rilievo alcuno che le espressioni usate siano il frutto di consuetudine o abitudine di certe classi sociali. Non si ritengono oltraggiose le c.d. bestemmie << velate >>, cioè i sostitutivi della bestemmia che consistono nella pronuncia di parole prive di senso, o avente un significato di per sé ingiurioso, e nemmeno << l’abuso di parole appartenenti alla terminologia religiosa pronunciate senza aggettivi offensivi, a guisa d’imprecazione >> [145].
Elemento soggettivo.
Per integrare l’elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, la sola volontà di pronunciare le parole blasfeme, e non l’intenzione specifica di offendere la Divinità, le Persone o i Simboli la quale, potrebbe semmai rendere applicabile l’art. 402 c.p. o una delle norme seguenti [146]. L’oltraggiosità delle espressioni deve intendersi in senso obbiettivo, in quanto serve a caratterizzare il contenuto dell’espressione come bestemmia, rimanendo estraneo il profilo relativo alle intenzioni dell’agente. Il reato è spesso la conseguenza di frasi che si pronunciano solo per mancanza di educazione o per abitudine,e può ben dirsi che la ragione che spinge taluni a bestemmiare non ha niente a che vedere con Dio o con i Santi [147]. La svalutazione dell’elemento psichico operata dalla dottrina ha reso applicabile l’art. 724 c.p. anche in presenza di un semplice << ricorrere del comportamento materiale >> [148]. Il reato de quo << pur costituito da una condotta apparentemente colposa, sarebbe composto in realtà da uno o più atti automatici … che si svolgerebbero per impulso o abitudine >> [149], espressioni verbali che << costituiscono un intercalare frequente nella fraseologia dialettale, specie nei momenti d’ira e di eccitazione alcolica >> [150].
Pubblicamente.
Il reato di bestemmia dev’essere commesso pubblicamente. Il reato si considera avvenuto pubblicamente quando la bestemmia è commessa con il mezzo della stampa, o con un altro mezzo di propaganda; può essere commesso anche in un luogo pubblico o aperto al pubblico, quando vi siano delle persone presenti, oppure in una riunione non privata ( attribuito che si può ammettere in relazione al luogo in cui la riunione viene tenuta, dal numero dei presenti, dallo scopo e dall’oggetto di essa ) [151]. In conseguenza di ciò non esiste reato se la bestemmia venga pronunciata in un luogo pubblico o aperto al pubblico, nel momento in cui nessuno sia presente, e ciò indipendentemente dalla prova del fatto. Non costituisce reato la bestemmia pronunciata in luogo privato, anche esposto al pubblico e alla presenza di persone, sempre che la bestemmia abbia carattere esclusivamente privato [152]. Per alcuni autori si tratterebbe di una elemento essenziale del reato [153], mentre per altri sarebbe una condizione di punibilità [154]. Il reato sussiste anche se la pubblicità non è voluta o conosciuta dal colpevole [155]. [1] A. Consoli, Il reato di vilipendio della religione cattolica, Milano, Giuffrè, 1957, pag. 30. [2] Mentre il primo profilo attiene alla libera manifestazione della religione,la libertà di culto si identifica come la possibilità di esercitare tutto quell’insieme di cerimonie, culti e partecipazioni collettive in cui l’individuo può manifestare la propria appartenenza ad un credo religioso. [3] Mentre l’art. 2 della legge delle Guarentigie si occupava della libertà di coscienza, dichiarando all’ultimo comma che << la discussione sulle materie religiose è pienamente libera >>, il codice Zanardelli tutela la sola libertà di culto: la tutela penale si esaurisce in tutti quei comportamenti che si possono riconoscere come forma di un atto di culto. L’ateismo, benché viene ad essere un comportamento sussumibile sotto la previsione dell’art. 2 delle legge delle Guarentigie, ma vedeva accordato una tutela penale in quanto << a tale credenza negativa certamente non si potevano estendere le disposizioni precettive concernenti il culto, poiché tale credenza ripugna a qualsiasi atto di culto >>. [4] A. Consoli, Il reato di vilipendio della religione cattolica, Milano, Giuffrè, 1957, pag. 32. [5] Cass. Torino, 27 maggio 1892, in Riv. pen., 1829, XXXVI, pag. 144. [6] Cass., 30 Novembre 1903, in Giust. pen., 1903, I, pag. 309. [7] G. Lombardi, Intorno ai delitti contro la libertà dei culti, in Suppl. Riv. pen., 1902, III, pag. 110. [8] Ibidem. [9] P. Tuozzi, Intorno ai delitti contro la libertà dei culti, in Suppl. Riv. pen., 1902, V, pag. 66. [10] G. Lombardi, Intorno ai delitti contro la libertà dei culti, in Suppl. Riv. pen. III, 111. [11] A. Consoli, Il reato di vilipendio della religione cattolica, Milano, Giuffrè, 1957, pag. 41. [12] E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale, Cedam, Padova, 1964, pag. 65. [13] Verbali della commissione, pag. 310. [14] Ibidem. [15] Per esempio il Florian, Delitti contro la sicurezza dello Stato, in Trattato di diritto penale, Vallardi, 1923, vol. II, Parte I, pag. 423. [16] Cass., II, 11 dicembre 1903, in Giust. pen., 1904, pag. 279. [17] E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale, Cedam, Padova, 1964, pag. 68. [18] A. Consoli, Il reato di vilipendio della religione cattolica, Milano, Giuffrè, 1957, pag. 44. [19] Cass., II 18 novembre 1921, in Giust. pen., 1922, I, pag. 406. [20] E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale, Cedam, Padova, 1964, pag. 71. [21] M. Piacentini, Dei delitti contro il sentimento religioso, in Giust. pen., 1935, II, pag. 530. [22] E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale, Cedam, Padova, 1964, pag. 84.
[23] E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale, Cedam, Padova, 1964, pag. 87.
[24] E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale, Cedam, Padova, 1964, pag. 91.
[25] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag.15. [26] E. Florian, Il sentimento religioso e la pietà dei defunti. Delitti contro la libertà individuale. Trattato di diritto penale, vol. II, parte II, Milano, Vallardi, 1936, pag. 203. Saltelli C.Romano Di Falco, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, vol. II, Parte prima, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1931, pag. 456. [27] E. Florian, Il sentimento religioso e la pietà dei defunti. Delitti contro la libertà individuale. Trattato di diritto penale, vol. II, parte II, Milano, Vallardi, 1936, pag. 203. [28] Ibidem. [29] A. Dall’Ora, Sulla nozione giuridico penale di cadavere. La questione del nato morto, in Riv. it. dir. pen., 1949, pag. 88. Ritiene che la minor pena prevista per il reato ex. art. 402 c.p. rispetto agli art. 403 c.p. e 404 c.p. dipende dal carattere generico del modo con cui fu manifesto il vilipendio. [30] E. Florian, Il sentimento religioso e la pietà dei defunti. Delitti contro la libertà individuale. Trattato di diritto penale, vol. II, parte II, Milano, Vallardi, 1923, pag. 203, il quale, partendo dal condiviso presupposto che sia la religione dello Stato ad essere tutelata dagli articoli del Capo I, non riconosce le disposizioni seguenti all’art. 402 c.p. come autonome da esso. L’A. sostiene che << i delitti preveduti negli articoli 403 c.p. e 404 c.p. sono collegati insieme dal comune presupposto, che trattasi bensì di vilipendio su persone o cose, ma in realtà questo non vive di vita umana, bensì questo appare atteggiato e plasmato come istrumento, come modo e manifestazione di offesa alla religione dello Stato >>[30], ma ciò non pare accettabile dalla miglior dottrina che considera come autonomo ogni reato del capo I: se così non fosse, sarebbe stato più opportuno prevedere il solo articolo 402 c.p., in grado necessariamente di assorbire in sé le fattispecie previste dagli artt. 403 c.p. e 404 c.p. [31] P. Siracusano, I delitti in materia di religione, Milano, Giuffrè, 1983, pag. 99. [32] Rimane ancora da capire se l’espressione << sentimento religioso >> usata nel Titolo IV, diversa da quella contenuta nel Capo I, e nella rubrica dell’art. 402 implichi un diverso oggetto di tutela.Le Relazioni sul Progetto e al Codice operano una distinzione fra religione e sentimento religioso, ponendo tra i due concetti una differenza che è quella intercorrente fra religiosità e presupposto della stessa. Per il particolare conteso preso in considerazione possiamo riferirci al modo con cui il P. Nuvolone, Le leggi penali e la Costituzione, Milano, Giuffrè, 1953, pag. 91, concepisce la religione, il quale ricorda come essa si basi sempre su di una qualche credenza che ne costituisce il presupposto: è << quel complesso di credenze intorno al luminoso, alla divinità, ai rapporti fra Uomo e Dio, tra divino e mondo sensibile >> Appare logico concepire l’esperienza religiosa prima di tutto come un sentimento, e il Titolo IV si riferisce appunto al sentimento religioso, mentre la dicitura del Capo I allude al presupposto di tale sentimento e tutte quelle credenze che costituiscono la base dogmatica della religione cattolica, a quelle credenze su cui la religiosità si fonda. La normativa contenuta nel Capo I tutela non solo l’oggetto del sentimento religioso stesso, ma pure i mezzi con cui tale sentimento si esplica, nonché gli individui, sia in quanto credenti o ministri di culto: tutela sia il presupposto che le concretizzazioni del sentimento religioso. La ratio dell’art.402 è tutelare la << religione in sé e per sé >>. Ciò non avviene per i culti ammessi, dei quali non si tutelano quell’insieme di credenze a cui i culti stessi si riferiscono. In tal senso si è espressa la dottrina e la giurisprudenza dominante. Nuvolone, sottolinea che oggetto di reato ex. art 402 c.p. è << la religione cattolica in senso stretto, e non già i principi della morale cattolica, le dottrine sociali, politiche ed economiche professate dai cattolici >> Non sembra essere richiesto il fine specifico di offendere il sentimento religioso dei consociati proprio in conseguenza del fatto che il legislatore non ha voluto tutelare un sentimento religioso in senso lato ( che non si può confondere con la religione di Stato ) da ogni generico vilipendio. Le norme contenute nel Capo I possono quindi riconoscersi come concreta specificazione dell’oggettività giuridica indicata nella rubrica del Titolo I.
[33] E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale. Padova, 1964, pag. 101.
[34] E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale. Padova, 1964, pag. 114. [35] Ibidem. [36] Saltelli C.Romano Di Falco, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, vol. II, Parte prima, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1931, pag. 169. E. Florian, Il sentimento religioso e la pietà dei defunti. Delitti contro la libertà individuale. Trattato di diritto penale, vol. II, parte II, Milano, Vallardi, 1923, pag. 209. P. Nuvolone, Reati di stampa, Milano, Giuffrè, 1951, pag.54. V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. IV, Torino, Utet, 1961, pag. 547. [37] Saltelli C.Romano Di Falco, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, vol. II, Parte prima, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1931, pag. 456. [38] P. Nuvolone, Reati di stampa, Milano, Giuffrè, 1951, pag. 49, chiarisce come nel vilipendio vi sia << offesa, dal punto di vista oggettivo, qualificata dalla natura della contumelia idonea a profanare o a coprire di spregio la persona o la cosa cui è diretto; e da un punto di vista soggettivo, qualificata dall’intenzione di coprire di spregio la cosa o la persona >>. Elemento proprio del vilipendio sarebbe la sua particolare intensità. La maggior intensità offensiva determina che, mentre nei reati contro l’onore si deve andare a verificare l’effettiva sussistenza della lesione al bene protetto, nei reati di vilipendio ciò non sarebbe sufficiente perché l’azione è di per sé idonea ad avvilire la dignità di persone o istituzioni. [39] E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale, Padova, Cedam, 1964, pag. 132 e ss. [40] Basti pensare all’art. 300 c.p. che stabilisce le condizioni di reciprocità per i delitti di offese all’onore o al prestigio dei Capi di Stati esteri, dei loro rappresentanti, e di vilipendio della bandiera o di altro emblema di tali Stati. Tale articolo prevede che, qualora non siano previste condizioni di parità di tutela penale si devono prevedere le pene previste nel titolo dodicesimo e tredicesimo, con un aumento di pena. Mentre il titolo dodicesimo del codice Rocco prevede norme a tutela dell’onore, chiamate a sostituire la tutela disposta dagli art. 297 c.p. e 298 c.p., nel secondo titolo sono comprese le disposizioni di cui agli artt. 635 c.p. ( danneggiamento ) e 639 c.p. ( deturpamento e imbrattamento di cose altrui ) che possono sostituire la tutela prevista ex. art. 299 c.p.. È un esempio portato dalla dottrina per sottolineare come il legislatore si preoccupi non tanto di un certo tipo di condotta, quanto di un certo tipo di bene. Quando le entità tutelate nel Capo IV del Titolo I, non vengono più considerate nella loro qualità derivante da una particolare posizione o da uno specifico collegamento con l’ordinamento dello Stato estero o come simboli evocatori dello Stato estero, esse ricadono nella tutela comune dell’onore e del patrimonio. Cambia, nella costanza di una certa condotta, il titolo del reato per il diverso modo di considerare il bene tutelato. [41] A. Battaglia, Il vilipendio del Governo, Riv. pen. 1950, I, pag. 59. [42] E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale, Padova, Cedam, 1964, pag. 138. [43] A. De Mattia, Osservazioni sul reato di vilipendio al Governo, Critica Penale, 1952, pag. 50. [44] M. Mazzanti, Vilipendio: nozione autonoma e unitaria, in Giust. pen. 1958., II, pag. 997 ss. [45] Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, 1929, II, pag. 193 [46] Ibidem, pag.192. [47] Nel vilipendio di persona, il soggetto è attaccato in quanto qualificato da un rapporto con l’entità ideale, ma se l’offesa a un ministro di culto non è diretta a denigrare la religione, il fatto è riconoscibile come ingiuria, aggravata ex. art. 61 c.p.. Il codice si preoccupa di tutelare la qualifica di chi si pone in particolare rapporto con la religione. Lo stesso dicasi per le << cose >>, le quali possono essere simboli ( come la bandiera italiana o le cose che formano oggetto di culto ), oppure porsi in un particolare rapporto con l’entità ideale ( come gli oggetti ex. art. 404 c.p. ). Si accorda tutela ad una certa qualificazione del bene. Il vilipendio di tombe o di cadavere può essere riconosciuto come unica eccezione: in questi casi non c’è coincidenza fra offesa e oggetto materiale della condotta. È comune opinione come sia la sopraveniente personalità del defunto oggetto di tutela penale. [48] P. Nuvolone, Reati di stampa, Milano, Giuffrè, 1951, pag.52. [49] A. Bianchi, Teorie antiche e teorie moderne in materia di vilipendio, Giust. pen. II, 1957, pag. 422. A. De Mattia, Osservazioni sul reato di vilipendio al Governo, Critica Penale, 1952, pag. 50. [50] Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale. Padova, 1964, pag. 145. [51] Ibidem. [52] F. Gabrieli, Delitti contro il sentimento religioso e la pietà verso i defunti, Milano, Giuffrè, 1952, pag. 100. [53] Per tutti, P. Nuvolone, Reati di stampa, Milano, Giuffrè, 1951, pag.31. [54] B. Petrocelli, Principi di diritto penale, Napoli, Jovene, 1955, pag. 301. [55] F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, Giuffrè, 2000, pag. 161. P. Nuvolone, Reati di stampa, Milano, Giuffrè, 1951, pag.35. [56] E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale, Padova, Cedam, 1964, pag. 157. [57] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 520. [58] S. Messina, Teoria generale dei delitti contro l’onore, Roma, Libreria Ricerca Editrice, 1953, pag.128 e ss. B. Petrocelli, Principi di diritto penale, Napoli, Jovene, 1955, pag. 302. [59] E. Florian, Il sentimento religioso e la pietà dei defunti. Delitti contro la libertà individuale. Trattato di diritto penale, vol. II, parte II, Milano, Vallardi, 1936, pag. 205. A. Bianchi, Teorie antiche e teorie moderne in materia di vilipendio, Giust. pen. II, 1957, pag. 420. S. Ranieri, Manuale di diritto penale,Parte speciale, II, Padova, Cedam, 1968, pag. 136. T. Pedio, Dell’elemento psicologico nel vilipendio della religione, in Giust. pen., 1950, II, pag. 990 ss. V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 22. [60] F. Bricola, Dolus in re ipsa. Osservazioni in tema di oggetto e accertamento del dolo, Milano, Giuffrè, 1960, pag. 55. [61] A. Consoli, Il reato di vilipendio della religione cattolica, Milano, Giuffrè, 1957, pag. 150 ss. E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale, Padova, Cedam, 1964, pag. 167 ss. F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, Giuffrè, Milano, 1996, pag. 205. l’autore richiede la consapevolezza del carattere antisociale del fatto alla stregua della considerazione della generalità dei cittadini, oltre alla consapevolezza e volontà dell’elemento della pubblicità del fatto medesimo, trattandosi di elemento strutturale del reato. [62] E. Vitali, Vilipendio della religione dello Stato. Contributo all’interpretazione dell’art. 402 del codice penale, Padova, Cedam, 1964, pag. 179. [63] S. Prosdocimi, Dolus eventualis: il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Milano, Giuffrè, 1993, pag. 182. [64] Spirito, voce Sentimento religioso ( tutela penale del ), in Enc. giur. Treccani, Roma, Treccani, 1992, vol. XXVIII. F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, Giuffrè, Milano, 1996, pag. 204. [65] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 19. [66] In tal senso la dottrina dominante. P. Siracusano, I delitti in materia di religione, Beni giuridici e limiti dell’intervento penale, Milano, Giuffrè, 1983, pag. 104. A. Santoro, voce Sentimento religioso e pietà dei defunti (delitti contro il ), in Nss. d., Torino, Utet, 1969, pag. 1234. Spirito, voce Sentimento religioso ( tutela penale del ), in Enc. giur. Treccani, 1992, vol. XXVIII. [67] S. Lariccia, Tutela dei culti e libertà di offendere, in Giur. it.,1964, II, pag. 47. [68] S. Prosdocimi, voce Vilipendio ( reati di ), in Enc. dir., Milano, Giuffrè 1993, vol. XLVI, pag. 737. [69] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 29. [70] In tal senso Siracusano, I delitti in materia di religione, Milano, Giuffrè, 1983, pag. 102. [71] S. Lariccia, Sulla tutela penale delle confessioni religiose acattoliche, Giur. pen., 1965, pag.242. [72] F. Onida, Vilipendio della religione e libertà di manifestazione del pensiero, in Giur. cost., 1975, pag. 3160. [73] F. De Giorgio, Osservazioni sulle offese arrecate al ministro del culto, quale titolare del beneficio ecclesiastico e del dolo del reato di cui all’art. 403 c.p., in Foro pen. 1968, pag. 260. [74] In tal senso Siracusano, I delitti in materia di religione, Beni giuridici e limiti dell’intervento penale, Milano, Giuffrè, 1983, pag. 103; il quale afferma che, a differenza di quanto accade nell’art. 402 c.p., nel presente articolo l’oggetto della tutela penale non coincide con l’oggetto dell’azione. Il credente e il ministro di culto sono entità diverse rispetto al bene << sentimento religioso >>, che è il vero bene a cui si vuole accordare tutela. A. Santoro, voce Sentimento religioso e pietà dei defunti (delitti contro il ), in Nss. d., Torino, Utet, 1969, pag. 1234. [75] In tal senso U. Spirito, voce Sentimento religioso ( tutela penale del ), in Enc. giur. Treccani, 1992, vol. XXVIII; e V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 32. [76] S. Ranieri, Manuale di diritto penale,Parte speciale, II, Padova, Cedam, 1968, pag. 290. Nello stesso senso, V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 24. [77] Per tutti basti il R. Pannain, Manuale di diritto penale, II, Torino, Utet, 1967, pag. 280; e il G. Maggiore, Diritto penale, II, vol.1, Bologna, Zanichelli Editore, 1951, pag. 338. [78] F. De Giorgio, Osservazioni sulle offese arrecate al ministro del culto, quale titolare del beneficio ecclesiastico e sul dolo del reato di cui all’art. 403 c.p., in Foro pen., 1968, pag. 260. [79] È fatto notare in dottrina, come il reato in esame abbia una struttura più coerente rispetto al delitto analogo previsto dal codice Zanardelli. L’art. 141 c.p. tutelava il diritto individuale di coscienza e di culto, e il requisito della pubblicità appariva fuori luogo. Se si fosse trattato di offesa all’ordine sociale, il requisito della pubblicità appariva coerente, ma non si capiva il requisito della querela di parte; se voleva accordare tutela alla libertà di coscienza, pareva corretto l’elemento della querela, ma non quello della pubblicità. [80] E. Florian, Il sentimento religioso e la pietà dei defunti. Delitti contro la libertà individuale. Trattato di diritto penale, vol. II, parte II, Milano, Vallardi, 1936 pag. 211.
[81] P. Nuvolone, Reati di stampa, Milano, Giuffrè, 1951, pag. 106. [82] E. Tascone, Vilipendio ( reati di ), in Enc. giur. Treccani, Roma, Treccani, 1994, vol. XXXII, pag. 6. [83] Per tutti A. Santoro, voce Sentimento religioso e pietà dei defunti (delitti contro il ), in Nss. d., Torino, Utet, 1969, pag. 1234. [84] Tranne nelle reliquie, che però devono essere state come tali approvate. [85] A. Santoro, voce Sentimento religioso e pietà dei defunti (delitti contro il ), in Nss. d., Torino, Utet, 1969, pag. 1234. [86] E. Florian, Il sentimento religioso e la pietà dei defunti. Delitti contro la libertà individuale. Trattato di diritto penale, vol. II, parte II, Milano, Vallardi, 1936, pag. 216. [87] Vaso, usato nella liturgia cattolica, di argento o di altro metallo, dorato all’interno, con coperchio, nel quale si conservano le particole consacrate. [88] A. Santoro, voce Sentimento religioso e pietà dei defunti (delitti contro il ), in Nss. d., Torino, Utet, 1969, pag. 1234. [89] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 41. [90] E. Florian, Il sentimento religioso e la pietà dei defunti. Delitti contro la libertà individuale. Trattato di diritto penale, vol. II, parte II, Milano, Vallardi, 1936, pag.219. L’autore, precisa come non pare opportuno considerare la sacrestia come luogo aperto al pubblico, in quanto luogo privato ad uso di sacerdoti e inservienti. [91] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 44. [92] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 41. [93] A. Santoro, voce Sentimento religioso e pietà dei defunti (delitti contro il ), in Nss. d., Torino, Utet, 1969, pag. 1234. [94] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 49. [95] Basti pensare ad un raffronto con l’art. 635 c.p.. Se si considera la sola parte dell’art. 404 c.p., il detto articolo risulta essere una forma di danneggiamento particolare: la specialità del soggetto passivo e il contenuto del dolo, qualora vi sia concorso fra i due delitti, rendono applicabile il solo articolo 404 c.p.. Se si vuole raffrontare l’art. 404 c.p. con l’art. 635 n. 3, che punisce il danneggiamento commesso a edifici destinati all’esercizio del culto, si dovrà applicare solo quest’ultimo articolo: in questo caso il soggetto passivo è speciale, e non pare essere compreso nella dizione << cose destinate al culto >>. [96] U. Spirito, voce Sentimento religioso ( tutela penale del ), in Enc. giur. Treccani, Roma, Treccani, 1992, vol. XXVIII, pag. 8. [97] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961 pag. 42. [98] A. C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, Milano, Giuffrè, 1979, pag. 147. [99] F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Bologna, Zanichelli, 1986, pag. 159. [100] In tal ordine di opinioni U. Spirito, voce Sentimento religioso ( tutela penale del ), in Enc. giur. Treccani, Roma, Treccani, 1992, vol. XXVIII, pag. 8. P. Siracusano, I delitti in materia di religione, Milano, Giuffrè, 1983, pag. 160. A. Santoro, voce Sentimento religioso e pietà dei defunti (delitti contro il ), in Nss. d., Torino, Utet, 1969, pag. 1235. [101] V. Masselli, In tema di turbativa di funzione del rito cattolico, in Giur. it. 1970, II, pag. 407. [102] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 11.
[103] Per tutti P. Colella, Brevi osservazioni in tema di << turbatio sacrorum >>, in Giur. pen., 1987, pag. 118. [104] E. Florian, Il sentimento religioso e la pietà dei defunti. Delitti contro la libertà individuale. Trattato di diritto penale, vol. II, parte II, Milano, Vallardi, 1936, pag. 223. [105] Ibidem. [106] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 62, il quale ritiene che non siano necessari tumulti o altri gravi disordini. [107] A. Massignani, Manifestazione per la pace e << turbatio sacrorum >>, in Dir. eccl. 1988, II, pag. 625. [108] P. Colella, Brevi osservazioni in tema di << turbatio sacrorum >>, in Giur. it. 1987, II, pag. 118. [109] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 62. A. Santoro, voce Sentimento religioso e pietà dei defunti (delitti contro il ), in Nss. d., Utet, Torino, 1969, pag. 1235. [110] E. Florian, Il sentimento religioso e la pietà dei defunti. Delitti contro la libertà individuale. Trattato di diritto penale, vol. II, parte II, Milano, Vallardi, 1936, pag. 223. [111] Per la prima tesi, V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 55; per la seconda S. Berlingò, Poteri dello Stato,diritto penale e comunità di culto, in Dir. eccl. 1962, II, pag. 280; V. Parlato, Turbamento di funzione religiosa, in Dir. eccl. 1971, II, pag. 444. [112] A. Santoro, voce Sentimento religioso e pietà dei defunti (delitti contro il ), in Nss. d., Torino, Utet, 1969, pag. 1235. [113] Ibidem, che ritiene necessaria in questi casi la presenza di un sacerdote quale << attore principale >>. A. Massignani, Manifestazione per la pace e << turbatio sacrorum >>, in Dir. eccl. 1988, II, pag. 626, che include anche i << pii esercizi >> introdotti dal Concilio Vaticano II. [114] Per tutti il V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 54, il quale sottolinea due questione di non poco rilievo. La prima è che le funzioni, cerimonie e pratiche religiose, risultano tutelate nel loro svolgimento, ma che non pare possibile escludere la punibilità di azioni che impediscano l’inizio di una funzione programmata; poi che l’esercizio della funzione o pratica religiosa deve essere legittimo e svolgersi regolarmente. L’autore esclude sussistere reato nell’ipotesi in cui l’agente abbia per esempio interrotto una funzione svolta da un prete interdetto o da un falso sacerdote. [115] S. Barbagallo, Riflessioni in tema di turbatio sacrorum, in Giur. di merito 1969, II, pag. 426. F. Colacci, Il reato di funzione religiosa durante la predica, in Nuovo dir., 1970, pag. 569. [116] R. Venditti Abuso del ministro del culto e << turbatio sacrorum >>, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1954, pag. 121. S. Berlingò, Poteri dello Stato,diritto penale e comunità di culto, in Dir. eccl. 1962, II, pag. 280. L. Musselli, In tema di turbativa di funzione del culto cattolico, in Giur. it. 1970, II pag. 405. V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 58. [117] L. Musselli, In tema di turbativa di funzione del culto cattolico, in Giur. it., II, pag. 408. [118] Tribunale di Roma, 30 aprile 1969. [119] G. Saraceni, Dir. ecc., 1951, pag. 1100. [120] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 59, il quale ritiene essere anche il requisito del luogo destinato al culto, o pubblico, o aperto al pubblico una condizione di punibilità. [121] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 66. A. Santoro, voce Sentimento religioso e pietà dei defunti (delitti contro il ), in Nss. d., Torino, Utet, 1969, pag. 1235. U. Spirito, voce Sentimento religioso ( tutela penale del ), in Enc. giur. Treccani, Roma, Treccani, 1992, vol. XXVIII, 8.
[122] L. Musselli, In tema di turbativa di funzione del culto cattolico, in Giur. it. 1970, II, pag. 407. [123] Gallo, voce << Dolo >>, in Enc. dir., vol. XIII, 1964, pag. 776. [124] M. Jasonni, Aporie antiche e recenti della giurisprudenza nella valutazione del dolo nella turbativa di predica, in Dir. ecc., 1971, II, pag. 116. [125] P. Colella, Brevi osservazioni in tema di << turbatio sacrorum >>, in Giur. pen., 1987, pag. 119. [126] E. Florian, Il sentimento religioso e la pietà dei defunti. Delitti contro la libertà individuale. Trattato di diritto penale, vol. II, parte II, Milano, Vallardi, 1936, pag. 228. [127] Ma in tal caso la minaccia su cose non realizzerebbe l’aggravante, in quanto non coperta dalla previsione legislativa. [128] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 69. [129] A. Santoro, voce Sentimento religioso e pietà dei defunti (delitti contro il ), in Nss. d., Torino, Utet, 1969, pag. 1234.
[130] Sono state stipulate intese con: la Tavola Valdese (l.11 agosto 1984, n. 449 e l. 5 ottobre 1993, n. 409), con l’Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno (l. 22 novembre 1998, n. 516 e l. 20 dicembre 1996, n. 637), con le Assemblee di Dio in Italia (l. 22 novembre 1988, n. 517), con l’Unione delle comunità ebraiche italiane (l. 8 marzo 1989, n. 101 e l. 20 dicembre 1996, n. 638), con l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia (l. 12 aprile 1995, n. 116) e con la Chiesa Evangelica Luterana in Italia (l. 20 novembre 1995, n. 520). [131] F. Onida, Ministri di culto, in Enc. giur. Treccani, Roma, Treccani, 1990, vol. XX, pag. 5. [132] In tal senso V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961. pag. 31. [133] F. Onida, Ministri di culto, in Enc. giur. Treccani, Roma, Treccani, 1990, vol. XX, pag. 6. [134] G. Flora, Tutela penale delle confessioni acattoliche, libertà di critica e principio di tolleranza religiosa, in Foro it. 1992, II, pag. 705. [135] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, IV ed., vol. VI, Torino, Utet, 1961, pag. 33. [136] F. Gabrieli, Delitti contro il sentimento religioso e la pietà verso i defunti, Milano, Giuffrè, 1952, pag. 259. [137] Nappi, Giurisprudenza sistematica, vol. IV, pag. 523. [138] Fiandaca-Musco, Diritto penale,, parte speciale, I, Bologna, Zanichelli, 2002, pag. 446. [139] La depenalizzazione del reato di bestemmia ad opera degli artt. 1-2 e 57 del d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507 ( Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’art. 1 della l. 25 giugno 1999, n. 205 ) ha trasformato l’illecito in una mera violazione di interessi tutelati dall’amministrazione. E’ interessante notare come tale depenalizzazione è intervenuta successivamente alla sentenza n. 440 del 1995 della Corte costituzionale, in cui espresse il suo orientamento teso ad eliminare nella vecchia norma ogni riferimento ad una sola fede religiosa. [140] P. Ciprotti, Bestemmia e manifestazioni oltraggiose contro i defunti, in Enc. dir., Milano, Giuffrè, 2004, pag. 300. [141] C. Lignola, Alcune osservazioni in merito ai reati che offendono la religione, Napoli, D’Auria, 1957, pag. 44. [142] P. Ciprotti, Bestemmia e manifestazioni oltraggiose contro i defunti, in Enc. dir., Milano, Giuffrè, 2004, pag. 302. [143] G. Marini, Bestemmia, in Nov. D. app. I, Torino, Utet, 1987, pag. 733. [144] G. Sabatini, Le contravvenzioni nel codice penale vigente, Milano, Vallardi, 1961, pag. 547. [145] V. Manzini, Trattato di diritto penale, vol. X, Torino, Utet, 1986, pag. 946. [146] Ibidem, pag. 951. [147] E. Florian, Trattato di diritto penale, Delle contravvenzioni in particolare, IV ed., Milano, Vallardi, 1937, pag. 420. [148] M. Piacentini, Bestemmia, in Nov. Dig., vol. II, Torino, Utet, 1987, pag. 380. [149] Ibidem. [150] Ibidem. [151] E. Florian, Trattato di diritto penale, Delle contravvenzioni in particolare, IV ed., Milano, Vallardi, 1937, pag. 421. [152] Ibidem. [153] Per esempio G. Sabatini, Le contravvenzioni nel codice penale vigente, Milano, Vallardi, 1961, pag. 548. [154] V. Manzini, Trattato di diritto penale, vol. X, Torino, Utet, 1986, pag. 948. [155] P. Ciprotti, Bestemmia e manifestazioni oltraggiose contro i defunti, in Enc. dir., Milano, Giuffrè, 2004, pag. 302.
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